Sebastiano De Gennaro

Storia di un compositore para-occasionale, ad uso di chiarimento personale (1996-2022) by Enrico Gabrielli

1999

Magari non è chiaro per chi è avvezzo solo alla popular music, ma quando si scrive musica (scrivere nel senso specifico del termine) non si è coinvolti direttamente come esecutori. E spesso nemmeno come direttori. Nel campo della musica classica queste tre formule comportamentali designate come esecutore, direttore e compositore sono carriere completamente diversificate.

Si studia una vita per divenire almeno una di queste tre cose, e a parte alcuni casi storici (che ne so, Luigi Boccherini, W.A. Mozart, Giovanni Sollima…), si preferisce declinare l’auto-interpretazione. Come a dire: matematica, fisica e astrofisica fanno tutte capo al concetto di mamma matematica. Ma poi si sceglie.

Ci tengo specificare queste cose per non tradire le aspettative di chi legge un programma di musica colta e si aspetta che quel tizio che ha scritto quella cosa sia presente in veste di musicista performer. Quando realizzai le variazioni per orchestra su Bella Ciao lo scorso 25 aprile, c’era gente che sia aspettava fossi lì anche io, magari con una bandierona con la falce e il martello davanti all’orchestra de La Scala.

Ecco, non funziona così: quando si fa i compositori in genere si fa i compositori, ci si siede in un punto in ombra della sala e si aspetta la fine del brano come un qualsiasi ascoltatore. Se si è fortunati, possiamo compartecipare della sincerità di un estraneo che potrebbe dire la sua a bassissima voce all’amico di fianco, ignorando che tu sei il compositore. Se succede, è un evento impagabile. Bene o male che vada.

Ricordo nel 1995 quando partecipai, io 19enne imberbe, al corso di Salvatore Sciarrino al Festival delle Nazioni di Città di Castello e precipitai in una classe di fuori-classe (c’erano Mauro Lanza, Francesco Filidei, Carlo Carcano, Lorenzo Pagliei, Daniele Faraotti e mi pare pure Pierluigi Billone e Emanuele Casale) non volli assistere all’unica esecuzione di un mio brano per clarinetto solo dal titolo Riflessione I. Che titolaccio mamma mia…

Quel corso me lo pagai con il lavoro di cameriere durante il Palio di Siena l’estate in cui tutto il cast di “Io ballo da sola” si presentò al mio ristorante. Erano un sacco di persone ed ero talmente scimunito che non mi accorsi né di Bertolucci, né di Jeremy Irons, né della mia coetanea Liv Tyler.

Dicevo che non assistetti all’esecuzione di “Riflessione I” e ricordo benissimo che uscii non appena il brano iniziò. Tutta la spesa, tutta la fatica e tutto il percorso di studio risolto in un semplice gesto di auto-negazione. Ma non me ne pentii sinceramente. Per quanto giovane, ero coscientemente disinteressato a sentire l’esito del mio pensiero compositivo. Probabilmente perché non ce l’avevo, e non avevo voglia di confrontarmi con il mio “niente da dire” interiore.

Passarono anni prima che mi confrontassi di nuovo con la materia, e fu ad un meeting di giovani compositori organizzato nel 1998 da Marco Tutino in seno all’Arena di Verona (che pessimo gruppo di strumentisti, mamma mia ancora me lo ricordo…). Il centro di interesse verteva sulla musica colta che avrebbe dovuto incontrare gli strumenti e i luoghi della musica rock. Come relatori aggiunti erano intervenuti Ludovico Einaudi (prima di essere ciò che è) e il caro scomparso Piero Milesi, padre del minimalismo italiano nonché arrangiatore degli ultimi lavori di De André. Tra i miei compagni di corso c’era un giovane e ambizioso Oscar Bianchi e il mio caro amico di una vita Carlo Carcano, prossimo a diventare il più bravo arrangiatore che l’Italia abbia mai avuto alla fine del millennio. Il brano che ne scaturì si chiamava Corto azzurro all’avventura in un dì senza paura. Considerando che non sono un compositore tutto sommato esigente, conservo in audiocassetta ancora quell’esecuzione, ma fu un disastro talmente conclamato che mi procura feroce imbarazzo ad ascoltarla.

Nel 2000 vinsi il concorso di composizione del Conservatorio di Milano (una forma embrionale del Premio del Conservatorio) con un lavoro per piccola orchestra dal titolo Dall’alto, a sinistra del leccio. Era un brano che usava esclusivamente le quattro note che compongono la parola B.A.C.H. e grazie a questa prima forma di gioco limitativo, intuì che me la cavavo meglio con i terreni ristretti a poche regole piuttosto che ai vasti campi aperti. L’esecuzione venne affidata a Milano Classica diretta da Vittorio Parisi, in Palazzina Liberty e fu una buona esecuzione, tanto che mi valse l’interesse (ma dovrei proprio dire la passione carnale) di un tale di nome Nikos Velissiotis, capo dell’etichetta Agorà Classica. Costui mi tenne per scemo, semi ostaggio in una casa ufficio piena di laser disc, mini disc (erano gli anni di “Strange Days”, signori e signori…), compact disc di classica confusa e dozzinale, pezzi di antiquariato ellenico dal sapore di ricettazione. Voleva da me un disco di composizioni con il caveat: “cartoline di Napoli per turisti giapponesi”.

Per fare ciò chiamai a raccolta i Mariposa, il mio laboratorio umano, la mia confort zone. E questa cosa non piacque al signor Velissiotis. Spesi soldi per registrare cose con persone. E dopo due anni la faccenda si inabissò. Ne rimase traccia nel disco “Nuotando in un pesce bowl” e in seguito nella versione meta-composta “Metamorfosi di canzoni napoletane” con Timet. Dischi entrambi introvabili.

Anzi se li trovate, fatemi un fischio.

La mia carriera compositiva, già nel 2000, era pressoché conclusa. Avevo abnegato alla musica colta per intraprendere una specie di apprendistato sul baratro dell’art-rock underground. Questo anche dopo essere stato in qualità di clarinettista defenestrato dall’ensemble Risognanze, dopo anni di nuova musica subiti sulla pelle. Palestra incredibile, ma solo palestra.

A tal proposito (mi si perdoni digressioni e parentesi, ma alla soglia dei 46 anni ne ho di cose da raccontare…), l’estromissione avvenne a Saronno per la preparazione (mi pare) del Pierrot Lunaire di Arnold Schöenberg. Io feci ritardo causa treno, il direttore mi rimproverò e io gli risposi “Maestro, non mi rompere i coglioni”. Al che venni lasciato in attesa dentro il tinello di una casa X mentre gli altri provavano. Fine del rapporto di lavoro.

Io in quell’ensemble avevo allenato l’estro: in un concerto durante il Tiroler FestSpiele di Erl, creatura megalomanica del maestro austriaco Gustav Kuhn, l’ensemble Risognanze eseguì un brano molto complesso e molto veloce di Emanuele Casale. In partitura il clarinettista (io appunto) avrebbe dovuto suonare una campanella proprio alla sua conclusione e io disgraziatamente me l’ero dimenticata nel backstage. Mentre il brano scorreva e io suonavo, iniziai a scervellarmi per risolvere il dramma. Ero in totale rush, a “5 minuti dalla fine”… poi ebbi un lampo di genio: presi il copri bocchino (per fortuna in ferro) e sfilai il punteruolo (per fortuna anch’esso in ferro), lanciai in aria il primo e lo colpii con il secondo nell’esatto secondo in cui avrei dovuto suonare la campanella.

Perfetto.

Se non che la ferraglia fece una palombella e in una scena in moviola degna di una sforbiciata ai campionati mondiali, cadde sulla fronte di un tizio del pubblico in sala. Il che fece un secondo suono, più sordo, più di carne. Forse più interessante di quanto il compositore potesse sperare.

Negli anni che seguirono scrissi musica. Eccome! Brani che sono nel mio personale archivio, tutto rigorosamente su carta, quasi in copia unica. Molti tentativi di concorso. Nessun riscontro. Nessuna esecuzione. Cito alcuni titoli: Corto bianco in fuga (per quartetto d’archi e clarinetto piccolo in Mib), Corto Giallo dedicato a Galileo (per orchestra), Piccolo diorama teatrale (per gruppo di musicisti bambini), Fiabe dall’Adolescenza (per flauto e pianoforte), Suoni oltre sera (per clarinetto e pianoforte), un corpus di Falsi classici.

Nel 2004, se non erro, iniziai a scrivere La Milleundecima Notte, su libretto di Sergio Giusti e soggetto di Michael Ende. Tecnicamente è finita, ma praticamente non lo è. Storia lunga…

Vagavo inquieto tra non-tonalità, para-permutatività, sistemi scalari difettivi, giochi d’insieme senza insieme, suggestioni cinematografiche, utilizzo parodistico di transitori d’attacco, polarizzazioni, cangianze... Pure la new age acustica non era lontana dai miei pensieri.

Mi dovetti registrare da solo, ormai nel 2009, un brano dal titolo Matematica Naif per rinfocolare la brace del piccolo fuoco sacro compositivo. Quel brano è contenuto in “Der Maurer, vol. 1” (Trovarobato Parade, 2010).

Conobbi Sebastiano De Gennaro probabilmente intorno al 2008, tramite Giorgio Prette, storico batterista degli Afterhours. Assieme a pochissimi altri, credo sia stato l’incontro musicale più importante che abbia mai fatto: con Sebastiano ho trovato un autentico sodale, una specie di anima eletta e allo stesso complementare con cui ho costituito un nucleo stabile di collaborazione senza scadenza.

Facemmo un periodo di concerti in duo, se così si può dire, molto selvatici. Tentavamo l’arduo compito di portare nei circoli ARCI, nei club o nei locali la musica colta su carta, eseguita con lo spirito tra il divulgativo e il guastatore per un pubblico che nei migliori dei casi teneva una birra in mano. Nei peggiori se ne andava o parlava della Juventus al bancone. L’impaginato comprendeva musiche di John Cage, Edmund Champion, Iannis Xenakis, Francis Poulenc, Steve Reich e qualcosa dello stesso Sebastiano e a rotazione cambiavamo. Il pezzo forte era in genere una versione “eroica” di Workers Union di Louis Andriessen, fatta a nudo e crudo con me al sax contralto e Sebastiano alle pelli e ferraglia, un brano omoritmico e violento della durata reale di 15 minuti. Ricordo al Locomotiv di Bologna nel lontano febbraio 2010, in apertura degli The Zen Circus, io persi i sensi dopo i primi 5 minuti del brano. Venne un’ambulanza, interruppero tutto. Fu un mezzo macello.

A distanza di anni abbiamo deciso di registrare questa versione in prospettiva della prossima uscita che si chiamerà Musica Politica (19m40s_19).

Di lì a poco decisi di iscrivermi di nuovo in Conservatorio di Milano nella classe di Alessandro Solbiati. Era il 2015 e quando rimisi piede in quel chiostro e salii le scale per i corridoi mi resi conto che erano passati circa quattordici anni dalla clausura del settimo di composizione tradizionale che avevo passato con Danilo Lorenzini. Nel frattempo l’Istituzione era divenuta una specie di università, con frequenza, esami, materie diversificate, ma per quanto non fossi ancora padre e non avessi il tempo risicato che ho adesso, non sarei mai riuscito a calendarizzare tutto il percorso di studi. Mi limitai a frequentare la classe di composizione dove assieme a me c’erano Pietro Dossena, Mattia Clera, Leonardo Marino, Marco Gaietta e Mauro Saleri e finché non arrivò la chiamata “alle armi” di Polly Jane Harvey io seguì al meglio ciò che potevo.

Nonostante la mia disincantata assenza di sistematicità e la mia veneranda età (39 anni cristoddio santissimo), partecipai al Premio del Conservatorio del 2015 e arrivai secondo classificato con un brano che reputo ancora adesso uno dei miei migliori lavori: Corti per Niccolò Castiglioni per 6 esecutori. Venne eseguito con garbo e cura da Mauro Francesco Bonifacio assieme all’ensemble di contemporanea degli studenti del Conservatorio, all’interno del quale brillavano Ethel Colella all’arpa, Carlotta Raponi al flauto e Damiano Afrifa al pianoforte (divenuti in seguito membri degli Esecutori di Metallo su Carta). Il secondo posto al concorso significava la commissione per un brano da camera (violino e pianoforte) e lo scrissi in previsione di un concerto programmato nel febbraio 2016. In quel periodo stavo leggendo un bel libro dello scienziato acustico inglese Trevor Cox e lì si accennava di un sacro gioco di parole “a reverbero” contenuto nel Musurgia Universalis di Athanasiuas Kircher: Tibi vero gratias agam quo clamore? Amore, more, ore, re. Scrissi un brano dal titolo Clamore, amore, ore, re che ancora adesso osservo con un misto di curiosità e di apprensione. Dopodiché seguì il tentativo (fallimentare) di partecipare al Premio Trio di Trieste con un brano dal titolo Allotropi. Da questo brano, conclusosi faticosissimamente in pieno tour con P.J. Harvey tra Londra e Varsavia, trassi una trascrizione per Sebastiano che finì nel disco “Il Picchio” (19m40s_03) con il titolo Coppia di allotropi. Questo brano è diviso in due movimenti, a là Donatoni: ho capito che la contrapposizione “a doppia pagina bianca” è un modo con cui mi piace impostare la musica che scrivo. Ci ho messo un sacco per capirlo però.

Ad esempio, sempre del 2016, avevo partecipato ad un concorso di scrittura pianistico per l’infanzia e avevo avuto una specie di menzione speciale con il brano Sei facce di un dado dove la forma a “racconto breve” era inscritto nel titolo. Era un sistema pratico, quello della parure di brani brevi perché ti concedeva rapidi cambi scenari e un alleggerimento del percorso formale.

“Corti per Niccolò Castiglioni” anche era così, composto da sette brani aforistici (I., II. “porti”, III. “fermo”, IV. “colpi”, V. “chiese”, VI. “fischi”, VII. “spilli”) che condividevano programmaticamente un’affinità con il mondo infantile, acuto e tintinnante del grande compositore lombardo. Di Niccolò Castiglioni conservo ancora memoria della silhouette affaticata e malandata, per i corridoi delle classi al secondo piano del Conservatorio; morì nel 1996 e io ero studente in una Milano da poco uscita da Tangentopoli, con le fabbriche ancora a regime, i riscaldamenti a gasolio, le cabine pubbliche. La mia principale ambizione era, allora, di divenire compositore puro. Ma a differenza di Ennio Morricone che fino all’ultimo istante si è trascinato un grande rimpianto per non essere riconosciuto come musicista “assoluto” io francamente ci ho messo una pietra sopra.

And let’s go rock’n’roll.

Durante questo periodo di ritorno ai banchi scolastici in stile De Amicis, conobbi Francesco Fusaro che faceva tre cose contemporaneamente: il giornalista, il musicologo e il dj contravvenendo al principio di diversificazione che impone la scienza applicata all’arte musicale (come dicevo in incipit). Venne a casa mia, a Milano, per una serie di interviste fiume che avrebbero dovuto corredare i deep-contents di Rockit. Una mente brillantissima -issima -issima apparsa nella mia cucina, così, a gratis.

I discorsi con lui investivano sfere complesse di approccio alla materia musicale in senso lato, dalla “scena musicale” all’attivismo politico culturale, dal crollo delle ideologie alla tecno italiana. Nel maggio del 2015 al Biografilm Festival di Bologna avevo presentato con EneceFilm e Sergio Giusti quello strano oggetto titanico dal titolo UPM – Unità di Produzione Musicale e parlammo anche di quello (se non erro). Ma, anche grazie a quelle chiacchierate, sempre di più si rafforzò in me la convinzione che un pensiero compositivo potente potesse non passare necessariamente dalla tecnica accademica.

A dimostrazione di questa teoria nacque il progetto di trascrizione di brani della scena Math-Metal-Noise-Instrumental italiana per organico acustico. A mio avviso i compositori “orali” dietro a quel mondo potevano avere molto da dire in forma di scrittura su carta e selezionai una decina di brani tra i tanti possibili. Registrammo negli studi della SAE Institute Milano con un gruppo di studenti fonici ciò che avremmo chiamato in seguito “Esecutori di Metallo su Carta: Progetto Generativo”. Quel gruppo altro non era che un espansione del nucleo Der Maurer – De Gennaro a misura di ensemble.

Quando io e Sebastiano, dopo aver pubblicato i nostri primi dischi  (“Hippos Epos” Trovarobato/Parade, “All my robots” MeMe e “1940/19’40’’ on Cage” [+ Der Maurer] Trovarobato/Parade) ci rendemmo conto che non c’era altro da fare che costruirci una nostra auto-casa editoriale, coinvolgemmo anche Francesco.

E così nacque 19’40’’.

Seguirono i festival come ContempoRarities al Teatro di Santeria Social Club giunto alla quinta edizione - anzi settima, se non ci fosse stata una merda di pandemia.

E il Puntuale Festival, grazie al quale dobbiamo per forza ricordare un’esecuzione dei Tierkreis di Stockhausen nel centro dell’avamposto pseudo-benignesco dell’Arci Progresso di Firenze.

E il “FuckBloom? Alban Berg!” al Bloom di Mezzago, dove si cantano le gesta di un’ Histoire du Soldat di Igor Stravinsky con quasi 300 paganti.

In quell’occasione ebbi modo di stringere uno splendido rapporto di collaborazione con la straordinaria violinista Yoko Morimyo, membro stabile degli Esecutori di Metallo su Carta. E con quello che sarebbe divenuto l’attuale quarto componente, il Winston Zeddemore per così dire, della 19’40’’: il direttore e trombettista Marcello Corti, persona di grandissimo talento, collaboratore coinvolgente ed entusiasta, una vera dinamo umana insomma.

A lui devo anche una commissione di un balletto da eseguire con organico giovanile in seno al Liceo Musicale e Coreutico Giuditta Pasta di Como. Il lavoro si chiama Balletto in bianco, un po’ perché è senza una determinata vicenda narrativa e un po’ perché ho scoperto che si usa indicare “balletto bianco” quella sezione, caratteristica del Romanticismo, nel quale dominano personaggi fantastici ed eterei. Tutto il materiale tematico e musicale è assemblato con un collage dei temi preferiti da ogni singolo studente. Si possono intrasentire circa una trentina di melodie.

Nell’autunno del 2019 lavorai ad un programma organizzato dal mio caro amico nonché docente di oboe al Conservatorio di Cagliari Mario Frezzato. L’incontro con Mario si perde nella notte dei tempi, e la sua storia meriterebbe cento pagine di diario. Basti dire che suonammo assieme in un ensemble ad Ulm (l’European Music Project), in Germania, durante l’eclissi totale di sole del 1998 e che una volta traversammo a piedi il confine al Brennero, sotto la neve, per un blocco dei treni in Italia. Uno di noi due aveva i sandali perché era fine già aprile. Ma lasciamo perdere… Il programma in Conservatorio a Cagliari prevedeva solo fiati, un contrabbasso, tastiere e percussioni. Trascrissi la “Outer Space Suite” di Bernard Herrmann (già contenuta nel disco “At The Gates Of The Twilight Zone” 19m40s_12) e una selezione di brani di Thomas De Hartmann, il musicista affiliato a Georges Gurdjieff. Poi scrissi una composizione, in forma di variazioni, dal titolo I Fiori di Ch’ong Tzu che ha diretto eroicamente Mario stesso. Questo brano è dedicato al mio storico maestro di composizione Danilo Lorenzini che nel 1979 incise un disco per la Cramps assieme a Michele Fedrigotti dal titolo “I fiori del sole”.

Gabrielli Enrico Frezzato Mario

con Mario Frezzato 1999

Che io ricordi quella fu l’ultima volta che ho avuto un’esecuzione di una mia composizione.

Mi permetto un parere: non accetto francamente la dicitura di Morricone “musica assoluta” perché mi sa di superominismo d’accatto. Anzi, è quasi una concezione discriminatoria perché sottende una valutazione, una collocazione eugenetica di purezza. Piuttosto forse potremmo chiamarla “musica d’arte”? Ma il dibattito è ancora aperto. Per quanto al non aficionados gli devi dire “musica contemporanea” per fargli comprendere cosa (grossomodo) stai facendo. E questo la dice lunga su quanto poco si è andati avanti nella qualifica del ruolo sociale di questa musica.

Il 25 aprile dello scorso anno, l’involuto 2021, una parte dell’orchestra de La Scala di Milano ha eseguito in streaming le mie Dieci variazioni su Bella Ciao. Dopodiché, grazie all’affettuosa intercessione di Roberto Benatti, sia contrabbassista in Scala che negli Esecutori di Metallo su Carta, mi è stato commissionato un brano per ciò che sarà il primo concerto di un Ensemble Contemporaneo interno alla Fondazione Scaligera. Per tal occasione, negli ultimi sei mesi, ho lavorato ad un brano in due movimenti dal titolo Scalata.

Enrico Gabrielli Teatro alla Scala

prova dell’Ensemble Contemporaneo della Scala, in sala prova del Teatro al sesto piano

Il musicologo Marco Moiraghi mi ha chiesto delle note da accompagnare alla presentazione del concerto. Mi piace riportarle tutte qui:

Si tratta di un lavoro diviso in due parti, e (come del resto dice il titolo stesso) parte tutto dal presupposto di una scala. In sostanza il titolo si spiega da sé con il nome della nota istituzione sinfonica. Semplice e infantile se si vuole, ma divertente. Ma il titolo ha anche quel sapore un po' Dallapiccoliano a là Tartiniana, come se dietro ci fosse una reinvenzione di materiale già esistente, un neoclassicismo metaforico. Il fatto che entrambi i movimenti si svolgano un po' come sequenza di variazioni lo farebbe pensare. C’è una ricerca spasmodica di “anti-retorica”, soprattutto sul secondo brano dove a tratti si sfiora l’ atarassia apparente. Forse c’è una necessità di lentezza che riflette il mio personale periodo di vita. C'è una nota di esecuzione in partitura che è degna di rilievo. Te la riporto anche qui:


Nota di esecuzione: è parte integrante dell’approccio a questo brano un certo grado di approssimazione nell’interpretare effetti e tecniche estese richieste in partitura. In generale interessa, ai fini dell’esecuzione, la sporcizia del suono e la reinvenzione dello stesso. 

Non importa se (ad esempio) un whistle viene confuso con un soffio o un soffio sul ponticello con un soffio d’arco sulla pancia. Importano invece l’insieme, l’attitudine, il ritmo e le dinamiche.
E in primis un approccio disincantato e leggero alla musica di coloro che sono ancora in vita. 

Il rispetto e il timore reverenziale lasciamolo altrove.

Otto merli sopra a un ramo by 19'40"

Francesco Fusaro e Sebastiano De Gennaro ci raccontano la video-opera dedicata e realizzata con otto bambini rinchiusi in quarantena nella prima ondata pandemica

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Otto merli sopra a un ramo 
Sedicenti musicisti
Cantan per ventiquattr'ore
Trentadue melodie tristi.
Son da tempo in quarantena
Perché fuori è un quarantotto!
Quanti giorni? 5/6?
Sembran più sessantaquattro!
"Per me son settantadue!"
Grida il bue da ottanta chili...
O forse erano ottantotto?
(Novesei, ma siam gentili...)
"Che sian cento con un quattro
C'entra poco se do dici!"
Disse un mago in tre secondi
A quei nove od otto amici.

Sono un grande ammiratore dell'opera di Toti Scialoja, che nella sua forma letteraria si declina spesso in un mondo di animali ritratti, con giochi di parole e allitterazioni funamboliche, in buffe avventure molto grottesche e molto antropomorfe. L'ammirazione si è estesa al cimentarmi con qualche poesia e filastrocca in stile, che ho chiamato scialojades e che tengo nei miei taccuini.

Fra questi omaggi privati, avevo cominciato a lavorare (sincronicità junghiana nella quale credo fortemente) ad un componimento a base numerica sui multipli dell'otto. Quando Sebastiano ha scritto ad Enrico e me per suggerirci di lavorare a qualcosa che potesse coinvolgere i suoi otto giovani e giovanissimi allievi, ho pensato fosse l'occasione giusta per portare il lavoro a compimento. Ma ahimè non riuscivo a trovare il taccuino su cui si trovava la bozza originale, così mi sono trovato costretto a riscriverla da capo. E forse è stato meglio così? Se un giorno la ritroverò, ve lo farò sicuramente sapere!

Venendo alla tradizionale analisi stilistica, vi posso dire che tutta la filastrocca è in ottonari, per essere coerenti con la base di partenza, ovvero i nostri otto giovani musicisti. 4 le stanze in totale, 16 i versi. La serie dell'8 termina a 104 per colpa del mago che, come tradizione vuole, scombina tutto facendoci saltare con un colpo di bacchetta direttamente al 12 (permettendoci anche il gioco di parole musicale, con citazione della nota di impianto della musica di Sebastiano) nella sua frase di 3 secondi che ci fa fare un breve passaggio proprio attraverso i multipli di 3 (citiamo infatti il numero 9, ovvero 12 - 3, ma anche 8 merli + 1 bue) e quindi, chiudendo da dove avevamo cominciato, ai nostri otto merli musicisti. Ci sono anche altri giochi di parole a base numerica ovviamente, come il 16 nascosto in "sedicenti", il 40 in quarantena o il 56 spezzato in 5/6 per rispettare il metro della filastrocca, e via dicendo.

Quando si è trattato di registrare la voce, ho pensato di abbassare la mia lettura di un semitono per darle una pasta da disco che perde pian piano giri, o da cassetta (ricordate le fiabe Fabbri Editori? Nel 2004 ci ho fatto anche un disco con due cari amici, campionandole e rimontandole in maniera molto irriverente...) che si sta lentamente smagnetizzando. Ho poi ripassato la voce ulteriormente con vari effetti per permettere a Sebastiano un montaggio variegato, sapendo che avrebbe gradito fare un editing a partire da materiale così surreale. Il risultato è una breve filastrocca per adulti fatta da bambini. Perché sono i bambini che hanno sofferto in questi mesi le burle amare di un mago molto pasticcione e distratto, e temo che solo il tempo ci darà la misura di ciò che hanno patito.

Francesco Fusaro

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Durante i mesi di lockdown nella primavera del 2020 mi sono trovato quotidianamente davanti al computer. Sullo schermo, a turno uno dopo l’altro, i miei otto giovani allievi di percussioni: Carlo, Zoe, Gioele, Lorenzo, Francesca, Matteo, Mattia, Kamillia. Alle loro spalle, un divano, la porta del bagno, il mobile della cucina, la sorella in tuta pronta per la lezione di danza da remoto, un cane che salta da destra a sinistra poi da sinistra a destra. Tutte le settimane a tentare di fare un’impossibile lezione di percussioni, senza strumenti, con mezzo secondo di latenza nell’audio, con connessioni per lo più scadenti, con un suono tremendo e a volte indecifrabile, e con la frustrante ed ossessionante domanda in testa: perché sono qui, anziché a fare i miei concerti? 
La risposta è banale: era importante continuare a coltivare quello scambio da persona a persona, quello scambio di informazioni ed affetto, che è poi il modo giusto di insegnare musica. Otto merli sopra a un ramo è l’idea che ci ha permesso di spingerci oltre alla faticosa esperienza DAD ed entrare nel più bel campo che esista, quello della creatività collettiva. Questa piccola video-opera raccoglie otto quadri di isolamento domestico e li mette in relazione attraverso una musica ed un testo composti appositamente per questi giovani musicisti. È stata ideata e realizzata eroicamente, in una situazione in cui le limitazioni erano pressoché totali per gli 8 piccoli musicisti e per i 4 adulti dietro a questo progetto.

La musica di questa video-opera è fatta di necessità (e di virtù): otto glockenspiel giocattolo in quanto unici strumenti a disposizione di tutti, dei richiami per uccelli (disinfettati imbustati e consegnati via posta ai rispettivi domicili), delle parti modulate sui rispettivi livelli musicali dei bambini e soprattutto eseguibili con un metronomo in cuffia (ostacolo gigantesco) ed infine la necessità di avere uno strumento musicale con frequenze acute, le uniche frequenze che si mantengono vagamente intelligibili attraverso l’audio di un telefonino. 
Il risultato è una sorta di minimalismo lo-fi d’infanzia, un carillon sinistro che non evoca certamente culle, bambole o caramelle bensì inquietudine e desiderio d’incontro.
Come nella migliore tradizione della minimal music americana (e ovviamente citando In C di Terry Riley)
il brano comincia, e termina, con un loop di Do ribattuti da tutta la compagine all’unisono. Gradualmente il loop si trasforma secondo l’ordine dei multipli dell’8 (sulla base del testo di Francesco), ed ogni cifra è rappresentata da un bambino che cambia leggermente il proprio loop, seguendo il ritmo della filastrocca.

Sebastiano De Gennaro

musica

Sebastiano De Gennaro

testo e voce

Francesco Fusaro

gli otto giovani musicisti

Carlo, Zoe, Gioele, Lorenzo, Francesca, Matteo, Mattia, Kamillia

disegno

Pietro Puccio


montaggio video


Marcello Corti

disponibile dal 12 novembre 2020, anche per non abbonati, su www.patreon.com/19m40s

Il Picchio di Sebastiano De Gennaro by Sebastiano De Gennaro

Cosa poteva essere per l’ominide nella preistoria il suono? La percezione del suono ed il suo utilizzo? Non lo sappiamo, o lo sappiamo in parte. Probabilmente passava attraverso la voce, ma contemporaneamente, e forse prima, era la percussione.
Forza gravitazionale: è in questa attrazione naturale della terra che si spiega e si manifesta il gesto del percuotere, ciò che permette di percepire il peso, la caduta ed il suono. Un processo che sul nostro pianeta si ripete ogni momento, da sempre, e che effettivamente può esser considerato l’origine più remota ed arcaica della musica.

Prendiamo ad esempio un animale, il Picchio. La sua percussione è rapida e precisa come se fosse quantizzata da un software ‘beat detective’, è scandita nel tempo con pause non casuali, il timbro varia se il picchio batte sul legno, sul metallo o sulla pietra; è un linguaggio complesso, so che è estremamente antico eppure suona alle mie orecchie spaventosamente moderno. Così è proprio il percuotere del picchio ad essere la perfetta metafora per descrivere ciò che è questo disco: una raccolta di forme e linguaggi musicali complessi che adoperano il mezzo primitivo della percussione.    
Percussione ed elettronica, un meraviglioso connubio di genesi e sviluppo, il senso del tempo, l’origine e l’evoluzione.

 

Il Picchio, l’imminente terza uscita 19’40”, è un disco a cui pensavo da tempo, un’impresa che finalmente realizzo: raccogliere cinque composizioni per percussione sola ed elettronica di autori viventi ed in attività (alcuni molto giovani) che nel DNA contengano il gesto primordiale della percussione ed il suono evoluto dell’era digitale. Louis Andriessen, David Lang, Edmund Campion, Nikolay Popov ed Enrico Gabrielli (la cui composizione Coppia di Allotropi del 2017 prende forma per la prima volta su questo disco) sono i protagonisti de Il Picchio ed assieme alla loro rara e bellissima musica, hanno dato concretezza a quest’opera il violino e la viola di  Yoko Morimyo, il mix di Roberto Rettura, i disegni di Pietro Puccio, le parole e le idee di Francesco Fusaro.

Sebastiano de Gennaro

The Teeth of the Cow by Sebastiano De Gennaro

George Hamilton Green (1893 – 1970), musician, composer, Foley artist, cartoonist, xylophone virtuoso: the seventh issue by 19'40'' will be dedicated to the music of this gifted, if rather obscure, artist.

But let's start from the beginning, from 1916 America, when George Hamilton and his brother Joe, a musician as well, leave native Omaha (Nebraska) to embark on a tour of their nation that will see them performing a vast repertoire of music, ranging from salon waltzes to show tunes, along with unpredictable reinterpretations of classical and ragtime music. In 1917, the Green Brothers arrive in New York City: George manages to establish himself as one of the most praised xylophone virtuosi of his time, attracting the attention of Edison who signs him to his label. Green's records skyrocket during this period: apparently, his discography sits at around a thousand albums. In the Roaring Twenties, his fame is also helped by the popularity of his song Alabama Moon, graced by the voice of Gladys Rice.

In September 1928, Green records the sound effects of the first short animation film by Walt Disney, Steamboat Willie, where the soon-to-be Mickey Mouse plays the xylophone on a cow's teeth. From then on, the sound of the xylophone would always be associated with the world of cartoons. 

George Hamilton Green was a mysterious genius: as the role of big bands became more prominent during the swing era, his music career progressively faded away. He abruptly gave up with music in 1946, in the middle of a radio session: apparently, he placed his mallets back and just left the studio. But the real surprise came after that episode: Green turned out to be a proficient cartoonist, a new career that would see his publications regularly appear on the Saturday Evening Post and Collier's. He would die Woodstock in 1970.

The Teeth of the Cow will be released on the 7th of December 2018, at 7:40 pm GMT+1. 

George Hamilton Green (1893 – 1970), musicista, compositore, rumorista, cartoonist, virtuoso dello xilofono; la settima uscita 19’40” sarà dedicata alla musica di questo tanto oscuro quanto geniale artista. 

Ma partiamo dall'inizio, dagli Stati Uniti d'America del 1916: George Hamilton ed il fratello Joe, a sua volta musicista, partono da Omaha, Nebraska, per un tour del proprio paese che li porterà ad esibirsi assemblando e suonando un vastissimo repertorio per due xilofoni: valzer da saloon, canzoni popolari, mirabolanti trascrizioni di brani classici, ragtime. Nel 1917 i Green Brothers approdano a New York e George si afferma come uno dei virtuosi dello xilofono più straordinari dell’epoca: Edison lo mette sotto contratto e si moltiplicano così le incisioni che lo vedono protagonista (si dice che esse superino il migliaio). Negli 'Anni ruggenti', la sua fama cresce anche grazie alla canzone Alabama Moon, da lui composta e cantata da Gladys Rice. 

Nel settembre del 1928 Green registra gli effetti sonori del primo cartoon di Walt Disney: Steamboat Willie, dove il futuro Mickey Mouse suona lo xilofono sui denti di una mucca. Da quel momento in avanti la musica per questo strumento sarà per sempre associata all’immaginario dei cartoni animati. 

George Hamilton Green era un misterioso genio: con l’avvento della musica delle grandi orchestre swing la sua carriera comincia ad incrinarsi e nel 1946 decide di smettere di suonare in pubblico. Lo fa improvvisamente, interrompendosi durante una diretta radiofonica, posando le bacchette ed andandosene senza tante spiegazioni. La vera sorpresa arriva dopo questo episodio: negli ultimi ventiquattro anni della sua vita Green si scopre un grande talento del fumetto, comincia una seconda carriera di cartoonist, finendo per pubblicare costantemente le proprie strisce sul Saturday Evening Post e Collier’s. Morirà a Woodstock nel 1970.

The Teeth of the Cow uscirà il 7 dicembre 2018, alle 19:40 ora italiana.

Music for Birds? by Francesco Fusaro

Wow, it's that time already! Yep, time for more shameless self-promotion! We are about to release our third issue by Sebastiano De Gennaro, and we are so excited about it, we thought about sharing with you the (almost) ornithological introduction by our own Francesco Fusaro. If you haven't got yourself a subscription yet, you can still consider buying one directly from our shop. If you subscribe now, you will receive Il Picchio, Histoire du soldat and the next 1 to 4 releases, depending on the subscription of your choice. Now, over to Francesco:

Woodpeckers are the percussionists of birds. They do have their own calls and songs, but those funny flying creatures are definitely infamous for their drumming, which can be surprisingly loud. (Bet their winged neighbours don't get on with them) So the name of Sebastiano De Gennaro's own recording for 19'40'' should come as no surprise, given that he is, in fact, the ‘woodpecker’ of Italian musicians. In fact, the classical-trained, former punk rocker from Brianza (Stendhal's favourite corner of the Peninsula) had already proven his love for Avifauna in the past: Ornithology, out of his underrated All My Robots album, is a tribute to that other environmentalist in disguise, Olivier Messiaen, who penned several birdsong-inspired compositions, including his famous Le réveil des oiseaux and Catalogue d'oiseaux.

In its long history, classical music has had quite a thing for ornithology: from plane imitation (think of Vivaldi's cuckoo in his Concerto in A Major RV 335, or Sergei Prokofiev's quacking oboe in Peter and the Wolf) to sampling (Respighi's I pini di Roma is thought to be one of the earliest examples), birds have extensively populated the work of many composers, to the point that we now have a branch of musicology dedicated to the study of the music of animals, zoomusicology, in which our lovely Avifauna holds a big stake. So, next time you hear a woodpecker distinctive sound, think of it as the latest addition to the family, thanks to Sebastiano De Gennaro (and Louis Andriessen)... “Now give the drummer some!”

Wow, è già l'ora di fare un po' di svergognata autopromozione! Siamo infatti in dirittura d'arrivo con la nostra terza uscita ad opera di Sebastiano De Gennaro e siamo così emozionati all'idea che abbiamo pensato di condividere l'introduzione (quasi) ornitologica che il nostro Francesco Fusaro ha scritto per l'occasione. Se non hai ancora acquistato un abbonamento, puoi sempre pensare a come spendere i tuoi soldi dando un'occhiata al nostro shop. abbonandoti, potrai ricevere direttamente a casa Il Picchio, Histoire du soldat e l'uscita successiva (o le 4 successive, a seconda della tua eventuale scelta). Ora la parola a Francesco:

I picchi sono i percussionisti del mondo volatile. Come gli altri loro colleghi, hanno anch'essi vari richiami sonori e canti, ma sono sicuramente più famosi per il loro martellamento, che sa essere piuttosto rumoroso (c’è da scommettere che non vanno particolarmente d’accordo con i loro vicini di casa). Quindi il titolo della nuova uscita di Sebastiano De Gennaro per 19’40’’ non dovrebbe sorprendere, essendo il nostro il ‘picchio’ dei musicisti italiani. In effetti, questo ex punk di formazione classica dalla Brianza (amatissimo angolo italiano del buon Stendhal) aveva già dimostrato il proprio amore per l’Avifauna in passato: Ornithology, brano incluso nel suo sottovalutato disco All My Robots, è un tributo ad un altro ambientalista sotto mentite spoglie, Olivier Messiaen, il quale a sua volta ha scritto diverse composizioni ispirate al canto degli uccelli, fra le quali Le réveil des oiseaux e Catalogue d'oiseaux.

Nella sua lunga storia, la musica classica ha sempre provato un certo che per l’ornitologia: dall’imitazione pura (pensiamo ad esempio al canto del cuculo nel
Concerto per violino in la maggiore RV 335 di Vivaldi, o l’anatresco oboe usato da Prokofiev nel suo Pierino e il lupo) all’uso di registrazioni (I pini di Roma di Respighi sembra essere uno dei primi esempi attestati), gli uccelli hanno ampiamente popolato le opere di molti compositori, al punto da stimolare la creazione di una branca della musicologia dedicata allo studio della musica del mondo animale, la zoomusicologia. Dunque, la prossima volta che sentirai il riconoscibile suono di un picchio, pensalo come ad una recente aggiunta al catalogo dei volatili amati dai compositori, grazie a Sebastiano De Gennaro (e Louis Andriessen)... “Now give the drummer some!