La retorica protocollata / by Enrico Gabrielli

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Potremmo tentare un consuntivo delle regoline applicate alle nostre misere vite di topolini usciti fuori dalle tane?

Direi che un quadro complessivo è impossibile. Ma a me pare più che la buona pratica del protocollo prevalga la retorica protocollata. Nel senso che la retorica del gesto sembrerebbe vincere sulla necessità sanitaria contingente. A volte anche a proprio favore…

C’è un ristorante a Torino in piazza Bodoni, ad esempio, che grazie alla disponibilità di spazio pubblico implementato dall’emergenza pandemica ha raddoppiato i coperti.

Un altro ristorante a Bologna oltre a non aver di fatto diminuito i posti a sedere dà il pane in un'unica busta di cartone dove per afferrarlo ogni commensale deve frugarci dentro in promiscuità.

Nei treni regionali di “nuova concezione” i finestrini sono sigillati e l’aria condizionata centralizzata a temperature illogiche (19°, controllato personalmente) e non si può nella maggioranza dei casi modificare (ad una mia richiesta il controllore mascherato risponde “il sistema è computerizzato e non è di nostra competenza”). L’aereo Ryanair  n° FR8826 da Brindisi a Torino è completo, senza remore sulle cosiddette distanze: una signora occupa per sbaglio uno dei nostri posti, si alza e prende posizione di fianco a me, in barba a sanificazioni e personalizzazioni igieniche del posto.  Le spiagge pugliesi sono una calca disordinata e senza passaggi specifici o percorsi divisori.

Benissimo, a me tutto questo generale sgonfiamento delle restrizioni piace pure. Ma dentro dentro covo un sospetto che tutto si stia traducendo in una retorica comportamentale più che in una reale esigenza.

Scomodando l’igienista Mantegazza, che fu uno dei primi in Italia a pubblicare manuali d’igiene personale quando ancora eravamo analfabeti e sottoproletari, lui diceva (se non erro) che saremmo nell’ordine della “buona creanza” più che dell’etica. Mentre in stazione risuonano ancora dagli altoparlanti gli obblighi alla “social distance”, ciò che viviamo oggi, a fine luglio 2020, a me sembra un “galateo socialoide”, una falsa danza tribale vicini-lontani-vicini.

D’accordo, ok. Basta dircelo. Io sono il primo a denunciare l’errore nel confondere “l’essere civili” con un’esigenza sanitaria; indossare la mascherina non è un’azione di civiltà: è una prevenzione medica. Come a dire: prendere una medicina non è un gesto connotato eticamente. Io sono un fumatore, il fumo fa male ma non per questo mi sento un cattivo cittadino.

Dieci o più giorni fa, mi imbatto in un concerto su RAI 5 con Daniele Gatti sul podio con l’Orchestra Nazionale della Rai a Torino in un programma con Morricone, Schönberg e Strauss. Tutti i musicisti indossano mascherina, sono distanziati e sparsi sui gradini del palco. La sala è vuota. Finito il programma (di per sé devo dire contrito e grave) la compagine ha applicato il solito iter gestuale con inchino, alzata dei musicisti, stretta di mano alla spalla, uscita preventiva del direttore. Tutto questo, inscatolato dentro ad un televisore e senza il briciolo di un applauso, ha un effetto bruttissimo, antiestetico, falsato; i musicisti son divenuti automi senza volto, il direttore un cardiologo in sala operatoria, la sala da concerto un teatro anatomico. Non si può celebrare il protocollo come fosse un buon esempio “culturale” in un tempio d’arte come un auditorium istituzionale: non siamo in un aereo in cui fare vedere dove son situate le uscite di sicurezza e i sistemi di emergenza, non si può trasformare in un funerale del gusto un concerto (specialmente di musica classica).

Noto che trasporti e ristorazione hanno adottato pesi e misure diverse rispetto alle attività concertistiche e teatrali, il che conferma che l’applicazione di quelle che son divenute a tutti gli effetti “morali” sanitarie in questa estate 2020 sia disfunzionale.

Rischiando una massimalizzazione in forma di slogan dico: le cose o si applicano a tutti o non si applicano a nessuno. E si fanno per bene, o non si fanno per nulla. Ripeto: basta dirlo.

Aggiungo solamente che per un computo di 96 cm (anziché 1 metro) tra due sedute sugli spalti dell’Idroscalo, i Calibro 35 in questo luglio non sono riusciti a suonare a Milano.

Per distrarmi, la sera in cui avrei dovuto suonare, mi sono fatto una pizza al ristorante.


EG