michele fedrigotti

Storia di un compositore para-occasionale, ad uso di chiarimento personale (1996-2022) by Enrico Gabrielli

1999

Magari non è chiaro per chi è avvezzo solo alla popular music, ma quando si scrive musica (scrivere nel senso specifico del termine) non si è coinvolti direttamente come esecutori. E spesso nemmeno come direttori. Nel campo della musica classica queste tre formule comportamentali designate come esecutore, direttore e compositore sono carriere completamente diversificate.

Si studia una vita per divenire almeno una di queste tre cose, e a parte alcuni casi storici (che ne so, Luigi Boccherini, W.A. Mozart, Giovanni Sollima…), si preferisce declinare l’auto-interpretazione. Come a dire: matematica, fisica e astrofisica fanno tutte capo al concetto di mamma matematica. Ma poi si sceglie.

Ci tengo specificare queste cose per non tradire le aspettative di chi legge un programma di musica colta e si aspetta che quel tizio che ha scritto quella cosa sia presente in veste di musicista performer. Quando realizzai le variazioni per orchestra su Bella Ciao lo scorso 25 aprile, c’era gente che sia aspettava fossi lì anche io, magari con una bandierona con la falce e il martello davanti all’orchestra de La Scala.

Ecco, non funziona così: quando si fa i compositori in genere si fa i compositori, ci si siede in un punto in ombra della sala e si aspetta la fine del brano come un qualsiasi ascoltatore. Se si è fortunati, possiamo compartecipare della sincerità di un estraneo che potrebbe dire la sua a bassissima voce all’amico di fianco, ignorando che tu sei il compositore. Se succede, è un evento impagabile. Bene o male che vada.

Ricordo nel 1995 quando partecipai, io 19enne imberbe, al corso di Salvatore Sciarrino al Festival delle Nazioni di Città di Castello e precipitai in una classe di fuori-classe (c’erano Mauro Lanza, Francesco Filidei, Carlo Carcano, Lorenzo Pagliei, Daniele Faraotti e mi pare pure Pierluigi Billone e Emanuele Casale) non volli assistere all’unica esecuzione di un mio brano per clarinetto solo dal titolo Riflessione I. Che titolaccio mamma mia…

Quel corso me lo pagai con il lavoro di cameriere durante il Palio di Siena l’estate in cui tutto il cast di “Io ballo da sola” si presentò al mio ristorante. Erano un sacco di persone ed ero talmente scimunito che non mi accorsi né di Bertolucci, né di Jeremy Irons, né della mia coetanea Liv Tyler.

Dicevo che non assistetti all’esecuzione di “Riflessione I” e ricordo benissimo che uscii non appena il brano iniziò. Tutta la spesa, tutta la fatica e tutto il percorso di studio risolto in un semplice gesto di auto-negazione. Ma non me ne pentii sinceramente. Per quanto giovane, ero coscientemente disinteressato a sentire l’esito del mio pensiero compositivo. Probabilmente perché non ce l’avevo, e non avevo voglia di confrontarmi con il mio “niente da dire” interiore.

Passarono anni prima che mi confrontassi di nuovo con la materia, e fu ad un meeting di giovani compositori organizzato nel 1998 da Marco Tutino in seno all’Arena di Verona (che pessimo gruppo di strumentisti, mamma mia ancora me lo ricordo…). Il centro di interesse verteva sulla musica colta che avrebbe dovuto incontrare gli strumenti e i luoghi della musica rock. Come relatori aggiunti erano intervenuti Ludovico Einaudi (prima di essere ciò che è) e il caro scomparso Piero Milesi, padre del minimalismo italiano nonché arrangiatore degli ultimi lavori di De André. Tra i miei compagni di corso c’era un giovane e ambizioso Oscar Bianchi e il mio caro amico di una vita Carlo Carcano, prossimo a diventare il più bravo arrangiatore che l’Italia abbia mai avuto alla fine del millennio. Il brano che ne scaturì si chiamava Corto azzurro all’avventura in un dì senza paura. Considerando che non sono un compositore tutto sommato esigente, conservo in audiocassetta ancora quell’esecuzione, ma fu un disastro talmente conclamato che mi procura feroce imbarazzo ad ascoltarla.

Nel 2000 vinsi il concorso di composizione del Conservatorio di Milano (una forma embrionale del Premio del Conservatorio) con un lavoro per piccola orchestra dal titolo Dall’alto, a sinistra del leccio. Era un brano che usava esclusivamente le quattro note che compongono la parola B.A.C.H. e grazie a questa prima forma di gioco limitativo, intuì che me la cavavo meglio con i terreni ristretti a poche regole piuttosto che ai vasti campi aperti. L’esecuzione venne affidata a Milano Classica diretta da Vittorio Parisi, in Palazzina Liberty e fu una buona esecuzione, tanto che mi valse l’interesse (ma dovrei proprio dire la passione carnale) di un tale di nome Nikos Velissiotis, capo dell’etichetta Agorà Classica. Costui mi tenne per scemo, semi ostaggio in una casa ufficio piena di laser disc, mini disc (erano gli anni di “Strange Days”, signori e signori…), compact disc di classica confusa e dozzinale, pezzi di antiquariato ellenico dal sapore di ricettazione. Voleva da me un disco di composizioni con il caveat: “cartoline di Napoli per turisti giapponesi”.

Per fare ciò chiamai a raccolta i Mariposa, il mio laboratorio umano, la mia confort zone. E questa cosa non piacque al signor Velissiotis. Spesi soldi per registrare cose con persone. E dopo due anni la faccenda si inabissò. Ne rimase traccia nel disco “Nuotando in un pesce bowl” e in seguito nella versione meta-composta “Metamorfosi di canzoni napoletane” con Timet. Dischi entrambi introvabili.

Anzi se li trovate, fatemi un fischio.

La mia carriera compositiva, già nel 2000, era pressoché conclusa. Avevo abnegato alla musica colta per intraprendere una specie di apprendistato sul baratro dell’art-rock underground. Questo anche dopo essere stato in qualità di clarinettista defenestrato dall’ensemble Risognanze, dopo anni di nuova musica subiti sulla pelle. Palestra incredibile, ma solo palestra.

A tal proposito (mi si perdoni digressioni e parentesi, ma alla soglia dei 46 anni ne ho di cose da raccontare…), l’estromissione avvenne a Saronno per la preparazione (mi pare) del Pierrot Lunaire di Arnold Schöenberg. Io feci ritardo causa treno, il direttore mi rimproverò e io gli risposi “Maestro, non mi rompere i coglioni”. Al che venni lasciato in attesa dentro il tinello di una casa X mentre gli altri provavano. Fine del rapporto di lavoro.

Io in quell’ensemble avevo allenato l’estro: in un concerto durante il Tiroler FestSpiele di Erl, creatura megalomanica del maestro austriaco Gustav Kuhn, l’ensemble Risognanze eseguì un brano molto complesso e molto veloce di Emanuele Casale. In partitura il clarinettista (io appunto) avrebbe dovuto suonare una campanella proprio alla sua conclusione e io disgraziatamente me l’ero dimenticata nel backstage. Mentre il brano scorreva e io suonavo, iniziai a scervellarmi per risolvere il dramma. Ero in totale rush, a “5 minuti dalla fine”… poi ebbi un lampo di genio: presi il copri bocchino (per fortuna in ferro) e sfilai il punteruolo (per fortuna anch’esso in ferro), lanciai in aria il primo e lo colpii con il secondo nell’esatto secondo in cui avrei dovuto suonare la campanella.

Perfetto.

Se non che la ferraglia fece una palombella e in una scena in moviola degna di una sforbiciata ai campionati mondiali, cadde sulla fronte di un tizio del pubblico in sala. Il che fece un secondo suono, più sordo, più di carne. Forse più interessante di quanto il compositore potesse sperare.

Negli anni che seguirono scrissi musica. Eccome! Brani che sono nel mio personale archivio, tutto rigorosamente su carta, quasi in copia unica. Molti tentativi di concorso. Nessun riscontro. Nessuna esecuzione. Cito alcuni titoli: Corto bianco in fuga (per quartetto d’archi e clarinetto piccolo in Mib), Corto Giallo dedicato a Galileo (per orchestra), Piccolo diorama teatrale (per gruppo di musicisti bambini), Fiabe dall’Adolescenza (per flauto e pianoforte), Suoni oltre sera (per clarinetto e pianoforte), un corpus di Falsi classici.

Nel 2004, se non erro, iniziai a scrivere La Milleundecima Notte, su libretto di Sergio Giusti e soggetto di Michael Ende. Tecnicamente è finita, ma praticamente non lo è. Storia lunga…

Vagavo inquieto tra non-tonalità, para-permutatività, sistemi scalari difettivi, giochi d’insieme senza insieme, suggestioni cinematografiche, utilizzo parodistico di transitori d’attacco, polarizzazioni, cangianze... Pure la new age acustica non era lontana dai miei pensieri.

Mi dovetti registrare da solo, ormai nel 2009, un brano dal titolo Matematica Naif per rinfocolare la brace del piccolo fuoco sacro compositivo. Quel brano è contenuto in “Der Maurer, vol. 1” (Trovarobato Parade, 2010).

Conobbi Sebastiano De Gennaro probabilmente intorno al 2008, tramite Giorgio Prette, storico batterista degli Afterhours. Assieme a pochissimi altri, credo sia stato l’incontro musicale più importante che abbia mai fatto: con Sebastiano ho trovato un autentico sodale, una specie di anima eletta e allo stesso complementare con cui ho costituito un nucleo stabile di collaborazione senza scadenza.

Facemmo un periodo di concerti in duo, se così si può dire, molto selvatici. Tentavamo l’arduo compito di portare nei circoli ARCI, nei club o nei locali la musica colta su carta, eseguita con lo spirito tra il divulgativo e il guastatore per un pubblico che nei migliori dei casi teneva una birra in mano. Nei peggiori se ne andava o parlava della Juventus al bancone. L’impaginato comprendeva musiche di John Cage, Edmund Champion, Iannis Xenakis, Francis Poulenc, Steve Reich e qualcosa dello stesso Sebastiano e a rotazione cambiavamo. Il pezzo forte era in genere una versione “eroica” di Workers Union di Louis Andriessen, fatta a nudo e crudo con me al sax contralto e Sebastiano alle pelli e ferraglia, un brano omoritmico e violento della durata reale di 15 minuti. Ricordo al Locomotiv di Bologna nel lontano febbraio 2010, in apertura degli The Zen Circus, io persi i sensi dopo i primi 5 minuti del brano. Venne un’ambulanza, interruppero tutto. Fu un mezzo macello.

A distanza di anni abbiamo deciso di registrare questa versione in prospettiva della prossima uscita che si chiamerà Musica Politica (19m40s_19).

Di lì a poco decisi di iscrivermi di nuovo in Conservatorio di Milano nella classe di Alessandro Solbiati. Era il 2015 e quando rimisi piede in quel chiostro e salii le scale per i corridoi mi resi conto che erano passati circa quattordici anni dalla clausura del settimo di composizione tradizionale che avevo passato con Danilo Lorenzini. Nel frattempo l’Istituzione era divenuta una specie di università, con frequenza, esami, materie diversificate, ma per quanto non fossi ancora padre e non avessi il tempo risicato che ho adesso, non sarei mai riuscito a calendarizzare tutto il percorso di studi. Mi limitai a frequentare la classe di composizione dove assieme a me c’erano Pietro Dossena, Mattia Clera, Leonardo Marino, Marco Gaietta e Mauro Saleri e finché non arrivò la chiamata “alle armi” di Polly Jane Harvey io seguì al meglio ciò che potevo.

Nonostante la mia disincantata assenza di sistematicità e la mia veneranda età (39 anni cristoddio santissimo), partecipai al Premio del Conservatorio del 2015 e arrivai secondo classificato con un brano che reputo ancora adesso uno dei miei migliori lavori: Corti per Niccolò Castiglioni per 6 esecutori. Venne eseguito con garbo e cura da Mauro Francesco Bonifacio assieme all’ensemble di contemporanea degli studenti del Conservatorio, all’interno del quale brillavano Ethel Colella all’arpa, Carlotta Raponi al flauto e Damiano Afrifa al pianoforte (divenuti in seguito membri degli Esecutori di Metallo su Carta). Il secondo posto al concorso significava la commissione per un brano da camera (violino e pianoforte) e lo scrissi in previsione di un concerto programmato nel febbraio 2016. In quel periodo stavo leggendo un bel libro dello scienziato acustico inglese Trevor Cox e lì si accennava di un sacro gioco di parole “a reverbero” contenuto nel Musurgia Universalis di Athanasiuas Kircher: Tibi vero gratias agam quo clamore? Amore, more, ore, re. Scrissi un brano dal titolo Clamore, amore, ore, re che ancora adesso osservo con un misto di curiosità e di apprensione. Dopodiché seguì il tentativo (fallimentare) di partecipare al Premio Trio di Trieste con un brano dal titolo Allotropi. Da questo brano, conclusosi faticosissimamente in pieno tour con P.J. Harvey tra Londra e Varsavia, trassi una trascrizione per Sebastiano che finì nel disco “Il Picchio” (19m40s_03) con il titolo Coppia di allotropi. Questo brano è diviso in due movimenti, a là Donatoni: ho capito che la contrapposizione “a doppia pagina bianca” è un modo con cui mi piace impostare la musica che scrivo. Ci ho messo un sacco per capirlo però.

Ad esempio, sempre del 2016, avevo partecipato ad un concorso di scrittura pianistico per l’infanzia e avevo avuto una specie di menzione speciale con il brano Sei facce di un dado dove la forma a “racconto breve” era inscritto nel titolo. Era un sistema pratico, quello della parure di brani brevi perché ti concedeva rapidi cambi scenari e un alleggerimento del percorso formale.

“Corti per Niccolò Castiglioni” anche era così, composto da sette brani aforistici (I., II. “porti”, III. “fermo”, IV. “colpi”, V. “chiese”, VI. “fischi”, VII. “spilli”) che condividevano programmaticamente un’affinità con il mondo infantile, acuto e tintinnante del grande compositore lombardo. Di Niccolò Castiglioni conservo ancora memoria della silhouette affaticata e malandata, per i corridoi delle classi al secondo piano del Conservatorio; morì nel 1996 e io ero studente in una Milano da poco uscita da Tangentopoli, con le fabbriche ancora a regime, i riscaldamenti a gasolio, le cabine pubbliche. La mia principale ambizione era, allora, di divenire compositore puro. Ma a differenza di Ennio Morricone che fino all’ultimo istante si è trascinato un grande rimpianto per non essere riconosciuto come musicista “assoluto” io francamente ci ho messo una pietra sopra.

And let’s go rock’n’roll.

Durante questo periodo di ritorno ai banchi scolastici in stile De Amicis, conobbi Francesco Fusaro che faceva tre cose contemporaneamente: il giornalista, il musicologo e il dj contravvenendo al principio di diversificazione che impone la scienza applicata all’arte musicale (come dicevo in incipit). Venne a casa mia, a Milano, per una serie di interviste fiume che avrebbero dovuto corredare i deep-contents di Rockit. Una mente brillantissima -issima -issima apparsa nella mia cucina, così, a gratis.

I discorsi con lui investivano sfere complesse di approccio alla materia musicale in senso lato, dalla “scena musicale” all’attivismo politico culturale, dal crollo delle ideologie alla tecno italiana. Nel maggio del 2015 al Biografilm Festival di Bologna avevo presentato con EneceFilm e Sergio Giusti quello strano oggetto titanico dal titolo UPM – Unità di Produzione Musicale e parlammo anche di quello (se non erro). Ma, anche grazie a quelle chiacchierate, sempre di più si rafforzò in me la convinzione che un pensiero compositivo potente potesse non passare necessariamente dalla tecnica accademica.

A dimostrazione di questa teoria nacque il progetto di trascrizione di brani della scena Math-Metal-Noise-Instrumental italiana per organico acustico. A mio avviso i compositori “orali” dietro a quel mondo potevano avere molto da dire in forma di scrittura su carta e selezionai una decina di brani tra i tanti possibili. Registrammo negli studi della SAE Institute Milano con un gruppo di studenti fonici ciò che avremmo chiamato in seguito “Esecutori di Metallo su Carta: Progetto Generativo”. Quel gruppo altro non era che un espansione del nucleo Der Maurer – De Gennaro a misura di ensemble.

Quando io e Sebastiano, dopo aver pubblicato i nostri primi dischi  (“Hippos Epos” Trovarobato/Parade, “All my robots” MeMe e “1940/19’40’’ on Cage” [+ Der Maurer] Trovarobato/Parade) ci rendemmo conto che non c’era altro da fare che costruirci una nostra auto-casa editoriale, coinvolgemmo anche Francesco.

E così nacque 19’40’’.

Seguirono i festival come ContempoRarities al Teatro di Santeria Social Club giunto alla quinta edizione - anzi settima, se non ci fosse stata una merda di pandemia.

E il Puntuale Festival, grazie al quale dobbiamo per forza ricordare un’esecuzione dei Tierkreis di Stockhausen nel centro dell’avamposto pseudo-benignesco dell’Arci Progresso di Firenze.

E il “FuckBloom? Alban Berg!” al Bloom di Mezzago, dove si cantano le gesta di un’ Histoire du Soldat di Igor Stravinsky con quasi 300 paganti.

In quell’occasione ebbi modo di stringere uno splendido rapporto di collaborazione con la straordinaria violinista Yoko Morimyo, membro stabile degli Esecutori di Metallo su Carta. E con quello che sarebbe divenuto l’attuale quarto componente, il Winston Zeddemore per così dire, della 19’40’’: il direttore e trombettista Marcello Corti, persona di grandissimo talento, collaboratore coinvolgente ed entusiasta, una vera dinamo umana insomma.

A lui devo anche una commissione di un balletto da eseguire con organico giovanile in seno al Liceo Musicale e Coreutico Giuditta Pasta di Como. Il lavoro si chiama Balletto in bianco, un po’ perché è senza una determinata vicenda narrativa e un po’ perché ho scoperto che si usa indicare “balletto bianco” quella sezione, caratteristica del Romanticismo, nel quale dominano personaggi fantastici ed eterei. Tutto il materiale tematico e musicale è assemblato con un collage dei temi preferiti da ogni singolo studente. Si possono intrasentire circa una trentina di melodie.

Nell’autunno del 2019 lavorai ad un programma organizzato dal mio caro amico nonché docente di oboe al Conservatorio di Cagliari Mario Frezzato. L’incontro con Mario si perde nella notte dei tempi, e la sua storia meriterebbe cento pagine di diario. Basti dire che suonammo assieme in un ensemble ad Ulm (l’European Music Project), in Germania, durante l’eclissi totale di sole del 1998 e che una volta traversammo a piedi il confine al Brennero, sotto la neve, per un blocco dei treni in Italia. Uno di noi due aveva i sandali perché era fine già aprile. Ma lasciamo perdere… Il programma in Conservatorio a Cagliari prevedeva solo fiati, un contrabbasso, tastiere e percussioni. Trascrissi la “Outer Space Suite” di Bernard Herrmann (già contenuta nel disco “At The Gates Of The Twilight Zone” 19m40s_12) e una selezione di brani di Thomas De Hartmann, il musicista affiliato a Georges Gurdjieff. Poi scrissi una composizione, in forma di variazioni, dal titolo I Fiori di Ch’ong Tzu che ha diretto eroicamente Mario stesso. Questo brano è dedicato al mio storico maestro di composizione Danilo Lorenzini che nel 1979 incise un disco per la Cramps assieme a Michele Fedrigotti dal titolo “I fiori del sole”.

Gabrielli Enrico Frezzato Mario

con Mario Frezzato 1999

Che io ricordi quella fu l’ultima volta che ho avuto un’esecuzione di una mia composizione.

Mi permetto un parere: non accetto francamente la dicitura di Morricone “musica assoluta” perché mi sa di superominismo d’accatto. Anzi, è quasi una concezione discriminatoria perché sottende una valutazione, una collocazione eugenetica di purezza. Piuttosto forse potremmo chiamarla “musica d’arte”? Ma il dibattito è ancora aperto. Per quanto al non aficionados gli devi dire “musica contemporanea” per fargli comprendere cosa (grossomodo) stai facendo. E questo la dice lunga su quanto poco si è andati avanti nella qualifica del ruolo sociale di questa musica.

Il 25 aprile dello scorso anno, l’involuto 2021, una parte dell’orchestra de La Scala di Milano ha eseguito in streaming le mie Dieci variazioni su Bella Ciao. Dopodiché, grazie all’affettuosa intercessione di Roberto Benatti, sia contrabbassista in Scala che negli Esecutori di Metallo su Carta, mi è stato commissionato un brano per ciò che sarà il primo concerto di un Ensemble Contemporaneo interno alla Fondazione Scaligera. Per tal occasione, negli ultimi sei mesi, ho lavorato ad un brano in due movimenti dal titolo Scalata.

Enrico Gabrielli Teatro alla Scala

prova dell’Ensemble Contemporaneo della Scala, in sala prova del Teatro al sesto piano

Il musicologo Marco Moiraghi mi ha chiesto delle note da accompagnare alla presentazione del concerto. Mi piace riportarle tutte qui:

Si tratta di un lavoro diviso in due parti, e (come del resto dice il titolo stesso) parte tutto dal presupposto di una scala. In sostanza il titolo si spiega da sé con il nome della nota istituzione sinfonica. Semplice e infantile se si vuole, ma divertente. Ma il titolo ha anche quel sapore un po' Dallapiccoliano a là Tartiniana, come se dietro ci fosse una reinvenzione di materiale già esistente, un neoclassicismo metaforico. Il fatto che entrambi i movimenti si svolgano un po' come sequenza di variazioni lo farebbe pensare. C’è una ricerca spasmodica di “anti-retorica”, soprattutto sul secondo brano dove a tratti si sfiora l’ atarassia apparente. Forse c’è una necessità di lentezza che riflette il mio personale periodo di vita. C'è una nota di esecuzione in partitura che è degna di rilievo. Te la riporto anche qui:


Nota di esecuzione: è parte integrante dell’approccio a questo brano un certo grado di approssimazione nell’interpretare effetti e tecniche estese richieste in partitura. In generale interessa, ai fini dell’esecuzione, la sporcizia del suono e la reinvenzione dello stesso. 

Non importa se (ad esempio) un whistle viene confuso con un soffio o un soffio sul ponticello con un soffio d’arco sulla pancia. Importano invece l’insieme, l’attitudine, il ritmo e le dinamiche.
E in primis un approccio disincantato e leggero alla musica di coloro che sono ancora in vita. 

Il rispetto e il timore reverenziale lasciamolo altrove.