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Ghosts Goblins Ghouls

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il 14 aprile 2021 uscirà il nostro quattordicesimo disco e sarà un tributo alla sensazionale game music che nella metà degli anni ottanta composero rispettivamente Ayako Mori per Ghosts’n Goblins (1985), e pochi anni dopo Tim Follin per Ghouls’n Ghosts (1988).

Enrico e Sebastiano vi raccontano cosa ascolterete il 14 aprile, ma prima abbiamo pensato di introdurvi a questa uscita programmando un mini-game appositamente per l’occasione.
Magari riusciremo a risvegliare in voi il ricordo di qualche glorioso pomeriggio passato a consumar tasti in sala giochi.
Come nella miglior tradizione: tasti freccia per procedere a destra o a sinistra, barra spaziatrice per saltare, tasto X per lanciare.
Occhio agli Zombi, non vi lasceranno in pace fino all’albero. E sopratutto occhio al clavicembalista!

Ora tocca a te Sir Arthur, fai play per giocare.

PLAY

On April 14, 2021 our fourteenth album will be released and it will be a tribute to the sensational game music that in the mid-eighties composed respectively Ayako Mori for Ghosts'n Goblins (1985), and a few years later Tim Follin for Ghouls'n Ghosts (1988).

Enrico and Sebastiano tell you what you will listen to on April 14, but first we thought to introduce you to this release by programming a mini-game especially for the occasion. Maybe we can awaken in you the memory of some glorious afternoon spent consuming keys in the game room.

In the best tradition: arrow keys to move left or right, space bar to jump, X key to shoot. Watch out for the Zombies, they won't leave you alone until the tree. And above all, watch out for the harpsichordist!

Now it's your turn Sir Arthur, PLAY to play.

PLAY

Generazione “coin-op”

Faccio parte indubbiamente della generazione “coin-op”, figlia di un tempo in cui nelle sale giochi e nei bar si poteva fumare attivamente e passivamente. Quei cabinati a gettone (“coin-operated”, appunto) con levetta e pulsanti colorati facevano molto rumore, subivano le scariche nervose dell’errore e resistevano agli attacchi più violenti. I videogame erano concepiti per guadagnare denaro facendoti perdere gradualmente la pazienza. Forgiavano un tipo particolare di “gamer” anfetaminico, un vincente yuppie di provincia, esposto al pubblico ludibrio. Ci si stringeva attorno al fenomeno di turno che riusciva, con solo duecento lire, a raggiungere l’ultimo “schema” (stage) con le ultime “palline” (life) rimaste, e che spesso puzzava come un calciatore senza toelettatura. 

I videogiochi di quell’epoca — si parla di metà anni ‘80 — erano prestazionali, pieni di ostacoli, velocissimi e (quasi sempre) a scorrimento. Si chiamavano, in gergo, “platform game”, come ad esempio Super Mario Bros., Donkey Kong o Pitfall!, dove il personaggio è di profilo e l’ambiente è bidimensionale. Io recentemente ho provato a cimentarmi a Ghouls ’n Ghosts ma ho fatto veramente fatica perchè non si è più abituati ad affrontare il pericolo in trasversale. La visuale in soggettiva arriverà dopo e spopolerà dagli anni ‘90 con i cosiddetti “sparatutto” quali  Doom e Quake. Sarà questo genere che caratterizzerà il gaming immersivo così come lo intendiamo oggi, rampa di lancio verso la  VR (Virtual Reality) con titoli per Oculus come Half Life: Alyx o Lone Echo.

In questa uscita omaggiamo due dei platform game più rappresentativi di sempre, che malgrado le limitazione tecniche del programming vantano colonne sonore sensazionali. Timothy John Follin (classe 1970), fratello di Geoff e di Mike rispettivamente programmatore audio e produttore di videogames era il prototipo del teenager nerd genialoide: non componeva semplicemente musica, ma la “programmava” con un cesello complicatissimo di codici e stringhe e lo faceva probabilmente in uno scantinato simile a quello del film “Explorers” del 1985. Trascrivere questa selezione di musiche su carta è stato come applicare colori ad olio su un dipinto con tinte fluo. L’occasione di studiare questo materiale fu la realizzazione di un programma durante la seconda edizione di ContempoRarities al Santeria Social Club 2018 dal titolo “Arcade Music” in cui a Ghouls’n Ghosts avevamo accostato i 7 Triostücke für 3 Trautonien di Paul Hindemith e alcuni brani del sedicente Chino Goia Sornisi (vedi 19m40s_08). 

Quello che personalmente penso è che se nel 2021 non siamo ancora riusciti a colonizzare altri pianeti è perché l’evoluzione tecnologica domestica è passata dalla cruna dell’ago del videogame: laddove la realtà rendeva tutto più difficile, la simulazione ha sopperito. E, adesso, di gran lunga superato. 

Enrico Gabrielli

"Coin-op" generation

I am undoubtedly part of the "coin-op" generation, the heir of a time when you could—actively and passively—smoke in public arcades and bars. Those coin-operated cabinets, with their colored levers and buttons, made a lot of noise, suffered the nervous shocks of error and resisted the most violent attacks. Video games were designed to earn money by gradually causing you to lose patience. They forged a particular type of amphetamine “gamer”, a provincial winner of the yuppie cohort, exposed to public mockery. We huddled around the hero of the moment who managed, with only two hundred lire, to reach the last "scheme" (stage) with the last "balls" (life) left, and who often smelled like a football player. The video games of that era—I am talking about the mid-Eighties here—were high-performance ones, full of obstacles, very fast and (almost always) of the scrolling tipe. They were called, in jargon, "platform games", such as Super Mario Bros., Donkey Kong or Pitfall!, where the character is seen in profile, and the environment is two-dimensional. I recently tried my hand at Ghouls 'n Ghosts but I really struggled because gamers are no longer used to facing the danger coming to them crosswise. The first-person view would come later and gain popularity since the Nineties with the so-called "shooters", such as Doom and Quake. It will be this genre that will characterize immersive gaming as we understand it today, a launch pad towards VR (Virtual Reality) with such titles designed for the Oculus devices such as Half Life: Alyx or Lone Echo.

With this release, we pay homage to two of the most representative platform games of all time, which despite the technical limitations of programming boast sensational soundtracks. Timothy John Follin (born in 1970), brother of Geoff and Mike respectively, audio programmer and video game producer, was the prototype nerd teenager of the genius type: he did not simply compose the music, but he "programmed" it with a very complicated chisel of codes and strings and he did it probably in a basement similar to that of the 1985 film Explorers. Transcribing this selection of music on paper was like applying oil paints to a fluorescent painting. The opportunity to study this music material came with the second edition of ContempoRarities at the Santeria Social Club in 2018, with a special gig called "Arcade Music", in which Ghouls 'n Ghosts was paired with 7 Triostücke für 3 Trautonien by Paul Hindemith and some music excerpts by the so-called Chino Goia Sornisi (see 19m40s_08).

I think that if we are yet to colonize other planets, it is because domestic technological evolution has passed through the eye of the videogame needle: where reality made everything more difficult, simulation has made up for it. And, now, far outdated.

Enrico Gabrielli

Makaimura, il villaggio del mondo demoniaco

Credo che trovare informazioni complete su Ayako Mori sia arduo quanto sconfiggere il Great Demon King nel videogioco Ghosts’n Goblin (Makaimura il titolo originale), il celebre platform game del 1985, (spesso citato come il più difficile da giocare di tutti i tempi) del quale lei, Ayako Mori, compose l’indimenticabile colonna sonora. Eppure si tratta di una star della game music, nonché pioniera di un campo, quello della musica per videogiochi, che nella metà degli anni ottanta stava decollando.

Tra l’84 e l’86 Mori lavorò come compositrice per la casa di produzioni giapponese Capcom (Capsule Computer), firmando una buona decina di titoli tra i quali SonSon, 1942, Gunsmoke, Trojan e Ghosts’n Goblin. Compare a volte con lo pseudonimo di Wood ed altre con quello di Kinchaku Aya.

Quella generazione di compositori, si avventurava in un territorio che dal punto di vista di un musicista era assolutamente inospitale: i protocolli MIDI erano solo in una fase sperimentale, e non era prassi (come invece fu dagli anni novanta in poi) traghettare comodamente le idee musicali ad un computer tramite i tasti bianchi e neri di una tastiera. Bisognava programmare, scrivere musica con i numeri. Musicisti come Ayako Mori e Tim Follin sono senza dubbio autentici talenti, coi limiti della tecnologia degli Arcade Game dell’epoca, è probabile che per loro comporre musica per videogiochi fosse una vera e propria sfida. In un'intervista del 1986, Mori dice più o meno questo: “L'hardware con cui lavoro oggi restringe molto le mie possibilità espressive. Ho a disposizione un multitraccia che non supera i 6 o 8 canali e ne vorrei almeno 10…”. 

Nonostante gli hardware del 1985, le musiche di Ghosts’n Goblins sono bellissime, talmente belle che ascoltandole in un giorno dell’ottobre 2020, mentre con Enrico progettavamo questo disco, ho condiviso con lui il desiderio di provare a suonarle con il clavicembalo, strumento che in qualche modo porta nella sua natura meccanica alcune limitazioni che ricordano quelle dell’hardware di Mori: difficoltà di articolazione sulla tastiera, assenza di dinamiche e assenza di suoni tenuti. Detto fatto. L’esperimento di trascrivere la colonna sonora di Ghosts’n Goblin per clavicembalo e Clavinet (l’omologo elettrico del clavicembalo) è riuscita: dalle composizioni di Ayako Mori emergono echi Scarlattiani, Bachiani e Mozartiani. D’altronde la riuscita di questa operazione in pieno stile 19’40”, non era poi così imprevedibile; le influenze della musica classica sui compositori Capcom emergono frequentemente. Un esempio su tutti: il compositore inglese Mark Cooksey, che curò le musiche di Ghosts’n Goblin per la versione Commodore 64 del 1986, utilizzò il Preludio Op. 28, No. 20 di Frédéric Chopin, una pagina emblematica (e molto bella) del romanticismo ottocentesco.

Sebastiano De Gennaro

Makaimura, the Village of the Demonic World

I believe that finding complete information on Ayako Mori is as difficult as defeating the Great Demon King in the Ghosts 'n Goblins video game (Makaimura in the original Japanese title), the famous 1985 platform game—often cited as the hardest to play of all time—of which she, Ayako Mori, composed the unforgettable soundtrack. Yet she is a star of game music, as well as a pioneer in a field, that of video game music, which was taking off in the mid-Eighties.

Between 1984 and 1986 Mori worked as a composer for the Japanese production house Capcom (Capsule Computer), signing a good dozen titles including SonSon, 1942, Gunsmoke, Trojan and indeed Ghosts 'n Goblins. Sometimes she appears under the pseudonym of Wood and at other times with that of Kinchaku Aya.

That generation of composers ventured into a territory that, from the point of view of a musician, was absolutely inhospitable: MIDI protocols were only in an experimental phase, and it was not common practice (as it was from the Nineties onwards) to comfortably ferry ideas to a computer using the black and white keys of a keyboard. It was necessary to program, to write music by numbers. Musicians like Ayako Mori and Tim Follin are undoubtedly authentic talents: With the limitations of the Arcade Game technology of the time, it is likely that composing music for video games was a real challenge for them. In a 1986 interview, Mori says more or less this: “The hardware I work with today greatly restricts my expressive possibilities. I have a multitrack that does not exceed 6 or 8 channels and I would like at least 10…”.

Despite the 1980s hardware used, the music of Ghosts 'n Goblins is beautiful, so beautiful that listening to them on a day in October 2020, as Enrico and I were planning this very record, I shared with him the desire to try to play them with the harpsichord, an instrument which somehow brings, with its mechanical nature, some limitations reminiscent of those of Mori's hardware: the difficulty of articulation on the keyboard, the absence of dynamics and of held notes. No sooner said than done. The experiment of transcribing the soundtrack of Ghosts 'n Goblins for harpsichord and Clavinet (the electric counterpart of the harpsichord) was successful: Scarlattian, Bachian and Mozartian echoes emerge from the compositions of Ayako Mori. On the other hand, the success of this operation in full 19’40” style was not so unpredictable: The influences of classical music on Capcom composers emerge frequently. One example for all: the English composer Mark Cooksey, who edited the music of Ghosts 'n Goblins for the Commodore 64 version of 1986, used Frédéric Chopin's Prelude Op. 28, No. 20, an emblematic (and very beautiful) page of Nineteenth-century Romanticism.

Sebastiano De Gennaro

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Enrico Gabrielli Enrico Gabrielli

Nel 2021 serve ancora un orchestra a Sanremo?

Articolo apparso sul numero speciale Sanremo 2021 di Rolling Stone Italia

Grazie a Claudio Todesco e Alessandro Giberti

febbraio 2021

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[…]

Cinico Angelini fu il primissimo direttore musicale del primo San Remo del 1951 e il modello era l'orchestra sinfonica da repertorio operistico. I cantanti avevano voci vibranti, impostate, ad un passo dall'operetta. Nell'organico era presente l'arpa, il fagotto, un gran numero di archi e nessuna traccia di sezione ritmica. Già due anni dopo, nel 1953, ebbero l'idea di fare una doppia versione degli stessi brani in una veste "classica", arrangiata e diretta dall'Angelini, e una "moderna" affidata al genio di Armando Trovajoli. Le voci iniziavano a "corrompersi" e in mezzo alla timbrica pucciniana, comparvero i sassofoni e la chitarra elettrica. Imboccando il viale del ritmo sincopato, poi del soul, poi ancora della disco, poi del rock, del pop, dell'elettronica e delle ultime tendenze siamo giunti alla riduzione del numero di archi, la scomparsa dell'arpa, il prosciugamento dei legni, la definizione delle linee guida degli ottoni, l'ampliamento della parte "band" e l'incremento dell'armamentario informatico. Attualmente l'orchestra è composta da flauto (oppure ottavino), oboe (oppure corno inglese), due sassofoni (che suonano anche i clarinetti), due trombe, due tromboni, due corni, timpani (su cui ancora la zoomata è un rito immarcescibile), 8 primi violini, 8 secondi violini, 6 viole, 4 violoncelli, 2 contrabbassi (poveri, sempre impilati negli angoli bui dell'Ariston). Si aggiunge la cosiddetta parte "band", che da sola ha un sound naturale decisamente anni Novanta: pianoforte (il preferito dalla regia, con lui iniziano il 95% dei pezzi in gara), 2 tastieristi, 3 chitarristi, batteria, basso, 2 percussionisti (stranamente sprovviste di vibrafono o marimba). Il ruolo più importante lo copre l'uomo in ombra, ovvero l'addetto alle programmazioni che è colui che detiene il potere sugli start (ogni brano ha in cuffia un countdown vocale), sui click e sulle basi ed è posto di fronte al podio in un punto ben visibile al direttore perché in caso di patatrak è l'unico che può intervenire interrompendo l'esecuzione.

Per dire: durante la belligeranza in diretta tra Morgan-Bugo, l'orchestra iniziò a vacillare all’interruzione del click in cuffia e solo in seguito si interruppe al gesto del direttore.

L'orchestra può imprimere un boost di pathos là dove servono un po' di tinte forti o far crollare in una valanga di melma un brano già troppo carico di retorica. Ha un peso specifico di una decina di elefanti in una cristalleria e per questo motivo, sapendo che si scrive per Sanremo, le canzoni spesso già in scrittura concedono lo spazio per l'orchestrona. Quando non si valuta questa cosa, escon fuori le canzoni di Sanremo che si vergognano di essere lì a Sanremo.

[…]

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Otto merli sopra a un ramo

Francesco Fusaro e Sebastiano De Gennaro ci raccontano la video-opera dedicata e realizzata con otto bambini rinchiusi in quarantena nella prima ondata pandemica

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Otto merli sopra a un ramo 
Sedicenti musicisti
Cantan per ventiquattr'ore
Trentadue melodie tristi.
Son da tempo in quarantena
Perché fuori è un quarantotto!
Quanti giorni? 5/6?
Sembran più sessantaquattro!
"Per me son settantadue!"
Grida il bue da ottanta chili...
O forse erano ottantotto?
(Novesei, ma siam gentili...)
"Che sian cento con un quattro
C'entra poco se do dici!"
Disse un mago in tre secondi
A quei nove od otto amici.

Sono un grande ammiratore dell'opera di Toti Scialoja, che nella sua forma letteraria si declina spesso in un mondo di animali ritratti, con giochi di parole e allitterazioni funamboliche, in buffe avventure molto grottesche e molto antropomorfe. L'ammirazione si è estesa al cimentarmi con qualche poesia e filastrocca in stile, che ho chiamato scialojades e che tengo nei miei taccuini.

Fra questi omaggi privati, avevo cominciato a lavorare (sincronicità junghiana nella quale credo fortemente) ad un componimento a base numerica sui multipli dell'otto. Quando Sebastiano ha scritto ad Enrico e me per suggerirci di lavorare a qualcosa che potesse coinvolgere i suoi otto giovani e giovanissimi allievi, ho pensato fosse l'occasione giusta per portare il lavoro a compimento. Ma ahimè non riuscivo a trovare il taccuino su cui si trovava la bozza originale, così mi sono trovato costretto a riscriverla da capo. E forse è stato meglio così? Se un giorno la ritroverò, ve lo farò sicuramente sapere!

Venendo alla tradizionale analisi stilistica, vi posso dire che tutta la filastrocca è in ottonari, per essere coerenti con la base di partenza, ovvero i nostri otto giovani musicisti. 4 le stanze in totale, 16 i versi. La serie dell'8 termina a 104 per colpa del mago che, come tradizione vuole, scombina tutto facendoci saltare con un colpo di bacchetta direttamente al 12 (permettendoci anche il gioco di parole musicale, con citazione della nota di impianto della musica di Sebastiano) nella sua frase di 3 secondi che ci fa fare un breve passaggio proprio attraverso i multipli di 3 (citiamo infatti il numero 9, ovvero 12 - 3, ma anche 8 merli + 1 bue) e quindi, chiudendo da dove avevamo cominciato, ai nostri otto merli musicisti. Ci sono anche altri giochi di parole a base numerica ovviamente, come il 16 nascosto in "sedicenti", il 40 in quarantena o il 56 spezzato in 5/6 per rispettare il metro della filastrocca, e via dicendo.

Quando si è trattato di registrare la voce, ho pensato di abbassare la mia lettura di un semitono per darle una pasta da disco che perde pian piano giri, o da cassetta (ricordate le fiabe Fabbri Editori? Nel 2004 ci ho fatto anche un disco con due cari amici, campionandole e rimontandole in maniera molto irriverente...) che si sta lentamente smagnetizzando. Ho poi ripassato la voce ulteriormente con vari effetti per permettere a Sebastiano un montaggio variegato, sapendo che avrebbe gradito fare un editing a partire da materiale così surreale. Il risultato è una breve filastrocca per adulti fatta da bambini. Perché sono i bambini che hanno sofferto in questi mesi le burle amare di un mago molto pasticcione e distratto, e temo che solo il tempo ci darà la misura di ciò che hanno patito.

Francesco Fusaro

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Durante i mesi di lockdown nella primavera del 2020 mi sono trovato quotidianamente davanti al computer. Sullo schermo, a turno uno dopo l’altro, i miei otto giovani allievi di percussioni: Carlo, Zoe, Gioele, Lorenzo, Francesca, Matteo, Mattia, Kamillia. Alle loro spalle, un divano, la porta del bagno, il mobile della cucina, la sorella in tuta pronta per la lezione di danza da remoto, un cane che salta da destra a sinistra poi da sinistra a destra. Tutte le settimane a tentare di fare un’impossibile lezione di percussioni, senza strumenti, con mezzo secondo di latenza nell’audio, con connessioni per lo più scadenti, con un suono tremendo e a volte indecifrabile, e con la frustrante ed ossessionante domanda in testa: perché sono qui, anziché a fare i miei concerti? 
La risposta è banale: era importante continuare a coltivare quello scambio da persona a persona, quello scambio di informazioni ed affetto, che è poi il modo giusto di insegnare musica. Otto merli sopra a un ramo è l’idea che ci ha permesso di spingerci oltre alla faticosa esperienza DAD ed entrare nel più bel campo che esista, quello della creatività collettiva. Questa piccola video-opera raccoglie otto quadri di isolamento domestico e li mette in relazione attraverso una musica ed un testo composti appositamente per questi giovani musicisti. È stata ideata e realizzata eroicamente, in una situazione in cui le limitazioni erano pressoché totali per gli 8 piccoli musicisti e per i 4 adulti dietro a questo progetto.

La musica di questa video-opera è fatta di necessità (e di virtù): otto glockenspiel giocattolo in quanto unici strumenti a disposizione di tutti, dei richiami per uccelli (disinfettati imbustati e consegnati via posta ai rispettivi domicili), delle parti modulate sui rispettivi livelli musicali dei bambini e soprattutto eseguibili con un metronomo in cuffia (ostacolo gigantesco) ed infine la necessità di avere uno strumento musicale con frequenze acute, le uniche frequenze che si mantengono vagamente intelligibili attraverso l’audio di un telefonino. 
Il risultato è una sorta di minimalismo lo-fi d’infanzia, un carillon sinistro che non evoca certamente culle, bambole o caramelle bensì inquietudine e desiderio d’incontro.
Come nella migliore tradizione della minimal music americana (e ovviamente citando In C di Terry Riley)
il brano comincia, e termina, con un loop di Do ribattuti da tutta la compagine all’unisono. Gradualmente il loop si trasforma secondo l’ordine dei multipli dell’8 (sulla base del testo di Francesco), ed ogni cifra è rappresentata da un bambino che cambia leggermente il proprio loop, seguendo il ritmo della filastrocca.

Sebastiano De Gennaro

musica

Sebastiano De Gennaro

testo e voce

Francesco Fusaro

gli otto giovani musicisti

Carlo, Zoe, Gioele, Lorenzo, Francesca, Matteo, Mattia, Kamillia

disegno

Pietro Puccio


montaggio video


Marcello Corti

disponibile dal 12 novembre 2020, anche per non abbonati, su www.patreon.com/19m40s

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Enrico Gabrielli Enrico Gabrielli

Le pere di Pinocchio

“In questo mondo, fin da bambini, bisogna avvezzarsi abboccati e a saper mangiar di tutto, perché non si sa mai quel che ci può capitare. I casi son tanti!…

Dice Geppetto a Pinocchio quando il figlioletto non vuole mangiare buccia e torzoli di quelle tre poche pere.

Questo è un passo importante del capolavoro di Carlo “Collodi” Lorenzini datato 1881, un passo esemplificativo per definire il quadro socio economico in cui si ambienta la vicenda. Ristrettezze economiche e fame sono il motore immobile (e immobiliare) che spingono il meccanismo narrativo sin dall’inizio. E l’infanzia è male incastrata in questo meccanismo tremendo e inesorabile. Tutti elementi che purtroppo (nel 2020, chi l’avrebbe mai detto) sembrano iniziare una brutta risonanza con l’attualità. Ad oggi, rileggendo il Pinocchio, balzano alla mente le evidenze corrusche della realtà di fine ottocento e meno la fola de amicisiana paternalista che intontiva i bambini. La tesi del ragazzino buono che vince rispetto al monello impenitente che perde oggi non allieta, anzi intristisce. E piuttosto che de il Grillo Parlante vien da ricordarsi più volentieri di quell’orrendo Pesce balena Cane. La morale decade perché tra le problematiche di questa epoca essa non è prioritaria. Anzi è più importante “il morale” della morale, probabilmente, perché esso è ai minimi storici.

Il 13 dicembre uscirà la tredicesima uscita di 19’40’’ dal titolo per l’appunto “Pinocchio!” che raccoglie le struggenti musiche di Fiorenzo Carpi per lo sceneggiato RAI “Le avventure di Pinocchio” del 1972 di Luigi Comencini. Alla narrazione Francesco Bianconi e il suo dolce accento poliziano; all’interpretazione gli Esecutori di Metallo su Carta diretti da Marcello Corti. Olimpia Zagnoli in copertina.

Ascoltate questo disco e guardando fuori dalla finestra l’inverno che avanza mangiatevi una bella pera. Sperando che i tempi non ci costringano mai ad arrivare di aver obblighi morali con buccia e torzolo.

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#Pinocchio #Carlo Collodi Lorenzini #Fiorenzo Carpi #Luigi Comencini

#Francesco Bianconi #Olimpia Zagnoli # Esecutori di Metallo su Carta #fame

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Enrico Gabrielli Enrico Gabrielli

La retorica protocollata

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Potremmo tentare un consuntivo delle regoline applicate alle nostre misere vite di topolini usciti fuori dalle tane?

Direi che un quadro complessivo è impossibile. Ma a me pare più che la buona pratica del protocollo prevalga la retorica protocollata. Nel senso che la retorica del gesto sembrerebbe vincere sulla necessità sanitaria contingente. A volte anche a proprio favore…

C’è un ristorante a Torino in piazza Bodoni, ad esempio, che grazie alla disponibilità di spazio pubblico implementato dall’emergenza pandemica ha raddoppiato i coperti.

Un altro ristorante a Bologna oltre a non aver di fatto diminuito i posti a sedere dà il pane in un'unica busta di cartone dove per afferrarlo ogni commensale deve frugarci dentro in promiscuità.

Nei treni regionali di “nuova concezione” i finestrini sono sigillati e l’aria condizionata centralizzata a temperature illogiche (19°, controllato personalmente) e non si può nella maggioranza dei casi modificare (ad una mia richiesta il controllore mascherato risponde “il sistema è computerizzato e non è di nostra competenza”). L’aereo Ryanair  n° FR8826 da Brindisi a Torino è completo, senza remore sulle cosiddette distanze: una signora occupa per sbaglio uno dei nostri posti, si alza e prende posizione di fianco a me, in barba a sanificazioni e personalizzazioni igieniche del posto.  Le spiagge pugliesi sono una calca disordinata e senza passaggi specifici o percorsi divisori.

Benissimo, a me tutto questo generale sgonfiamento delle restrizioni piace pure. Ma dentro dentro covo un sospetto che tutto si stia traducendo in una retorica comportamentale più che in una reale esigenza.

Scomodando l’igienista Mantegazza, che fu uno dei primi in Italia a pubblicare manuali d’igiene personale quando ancora eravamo analfabeti e sottoproletari, lui diceva (se non erro) che saremmo nell’ordine della “buona creanza” più che dell’etica. Mentre in stazione risuonano ancora dagli altoparlanti gli obblighi alla “social distance”, ciò che viviamo oggi, a fine luglio 2020, a me sembra un “galateo socialoide”, una falsa danza tribale vicini-lontani-vicini.

D’accordo, ok. Basta dircelo. Io sono il primo a denunciare l’errore nel confondere “l’essere civili” con un’esigenza sanitaria; indossare la mascherina non è un’azione di civiltà: è una prevenzione medica. Come a dire: prendere una medicina non è un gesto connotato eticamente. Io sono un fumatore, il fumo fa male ma non per questo mi sento un cattivo cittadino.

Dieci o più giorni fa, mi imbatto in un concerto su RAI 5 con Daniele Gatti sul podio con l’Orchestra Nazionale della Rai a Torino in un programma con Morricone, Schönberg e Strauss. Tutti i musicisti indossano mascherina, sono distanziati e sparsi sui gradini del palco. La sala è vuota. Finito il programma (di per sé devo dire contrito e grave) la compagine ha applicato il solito iter gestuale con inchino, alzata dei musicisti, stretta di mano alla spalla, uscita preventiva del direttore. Tutto questo, inscatolato dentro ad un televisore e senza il briciolo di un applauso, ha un effetto bruttissimo, antiestetico, falsato; i musicisti son divenuti automi senza volto, il direttore un cardiologo in sala operatoria, la sala da concerto un teatro anatomico. Non si può celebrare il protocollo come fosse un buon esempio “culturale” in un tempio d’arte come un auditorium istituzionale: non siamo in un aereo in cui fare vedere dove son situate le uscite di sicurezza e i sistemi di emergenza, non si può trasformare in un funerale del gusto un concerto (specialmente di musica classica).

Noto che trasporti e ristorazione hanno adottato pesi e misure diverse rispetto alle attività concertistiche e teatrali, il che conferma che l’applicazione di quelle che son divenute a tutti gli effetti “morali” sanitarie in questa estate 2020 sia disfunzionale.

Rischiando una massimalizzazione in forma di slogan dico: le cose o si applicano a tutti o non si applicano a nessuno. E si fanno per bene, o non si fanno per nulla. Ripeto: basta dirlo.

Aggiungo solamente che per un computo di 96 cm (anziché 1 metro) tra due sedute sugli spalti dell’Idroscalo, i Calibro 35 in questo luglio non sono riusciti a suonare a Milano.

Per distrarmi, la sera in cui avrei dovuto suonare, mi sono fatto una pizza al ristorante.


EG

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Releases, Diary Sebastiano De Gennaro Releases, Diary Sebastiano De Gennaro

Il virus cambia la musica ma non le fa male

Karlheinz Stockhausen, Tierkreis
the upside down versions
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(foto Lorenzo Brusci)

(foto Lorenzo Brusci)

17 marzo 2020

Prima sospesi ed ora sottosopra. Non è un film, ripeto dentro me. Sì è un film: siamo tutti protagonisti di un film a cui difficilmente crederemmo se non fosse davvero qui, fuori dalle nostre porte. E questa volta, senza volerlo, il disco in arrivo (se riuscirà a raggiungere le vostre case) è la perfetta metafora della drammatica attualità: il tempo e le nostre cose quotidiane, da un momento all’altro, hanno assunto lunghezze e forme diverse, a cui non eravamo proprio preparati.

Tierkreis (Zodiaco) The Upside Down Version (la versione sottosopra), sarà la nostra undicesima uscita, e la ricorderemo perché caduta nel mezzo di questa pandemia. Sarà un disco dedicato ai Tierkreis di Karlheinz Stockhausen; dodici melodie, una per ogni segno dello zodiaco. La nostra sarà una doppia versione, il diritto ed il rovescio, il prima e il dopo. Le prime dodici tracce sono infatti la mia versione, tesa ad una malinconica, intima e familiare poesia fatta di semplicità di mezzi e sottrazione di suono (tre tastiere Casio ed un violino). Altrettante dodici tracce sono la stessa opera ma osservata ‘dall’altra parte dello specchio’: la versione infetta di Lorenzo Brusci, che ha raccolto la nostra esecuzione dei Segni in occasione del festiva AngelicA di Bologna e la ha spettralmente elaborata. Lorenzo è riuscito a catturare l’ombra (il reverbero) di quei dodici segni, con l’abilità e la pazienza di chi cerca di catturare sulla pellicola fotografica l’invisibile.

Ascoltare questo disco per me è come osservare il prima, e l’adesso, la nostra quarantena. Ciò che era familiare e certo ora non lo è più, siamo nel sottosopra (citando la serie televisiva Stranger Things). Mi viene in mente un sogno ricorrente che facevo da ragazzino: è buoi ed io entro nella mia camera da letto facendo il consueto gesto verso l’interruttore per accendere la luce, ‘clik’, ma stranamente qualcosa non funziona, la lampadina si accende ma la sua luce è talmente fioca che la stanza rimane buia. Questo sogno mi faceva paura come me lo fa questa epoca pestilenziale.

C’è da dire che la paura è estremamente interessante (come diceva Hitchcock), ed infatti questo disco è interessante oltre ad essere profondamente bello e misterioso. Dato che pare dovremo adattarci alle grandi solitudini, Tierkreist sarà un buon compagno per rendere intense le nostre solitudini.

(video Furio Ganz)


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Due appunti su “Mother Earth's Plantasia”

Che le piante siano, effettivamente, in grado di percepire il suono è un’acquisizione degli ultimi anni. Nel 2012, insieme a due colleghi, dimostrai che le radici delle piante erano in grado di percepire frequenze nell’intervallo fra 50 e 5000 Hz, rispondendo in maniera opportuna ai diversi suoni. I 200 Hz, ad esempio, rappresentando la frequenza sonora di picco nel suono dell’acqua corrente, piace moltissimo alle radici, che si dirigono verso la sorgente del suono senza indugio. Frequenze diverse, soprattutto quelle più alte, sono, al contrario, non molto gradite alle piante. Il suono delle vibrazioni delle ali degli insetti o dei loro richiami, di solito piuttosto acuto, è avvertito, infatti, dalle piante come pericoloso. La capacità delle piante di rispondere alle onde sonore nel loro ambiente è molto più diffusa di quanto pensiamo e numerose specie hanno sviluppato una serie di strategie per sfruttare il suono. Ad esempio, circa 20.000 specie vegetali diverse sono in grado di rilasciare il polline dai fiori solo quando sentono la corretta frequenza del suono prodotto dalle ali del proprio insetto impollinatore Su queste basi, non è sorprendente che in molti abbiano pensato ad una diretta influenza della musica sulla crescita delle piante.

Mother Earth's Plantasia è, senza dubbio, la realizzazione più straordinaria ed affascinante mai prodotta in questo senso. Warm earth music for plants... and the people who love them, è questo il sottotitolo del disco: musica per le piante e per chi le ama e Mort Garson ne era davvero convinto. Alla fine degli anni ’90 del secolo scorso, da giovane ricercatore, partecipavo ad un convegno sulla fisiologia delle piante a Edimburgo. Avevo appena parlato delle capacità di senso delle piante, fra i mugugni e la disapprovazione della maggior parte dei miei colleghi più anziani. Ero giovane e piuttosto abbattuto per le critiche ricevute, quando un signore, a me totalmente sconosciuto, mi si avvicinò per complimentarsi e per assicurarmi che il mondo vegetale era perfettamente in grado di apprezzare la musica: era Mort Garson. Si presentò come “musicista” e mi raccontò delle sue musiche scritte “per le piante”. Mi raccontò che aveva collaborato con dei botanici per la scrittura di Mother Earth's Plantasia e che gli effetti sulle piante erano indubitabili.

Qualche settimana dopo ricevetti in laboratorio un pacchetto contenente il suo disco e una gentilissima lettera in cui mi pregava di sperimentare le sue musiche sulle piante. Non l’ho fatto, mi sembrava una perdita di tempo. Ho anche perso nei traslochi lettera e disco. Non avevo alcuna idea di che razza di musicista fosse Mort Garson e della sua leggendaria carriera. Quando lo scoprii era troppo tardi (Garson è morto nel 2008) per fargli sapere che aveva ragione. Così, quando Enrico Gabrielli – co-fondatore di questa collana – mi ha scritto chiedendomi “due righe” su Mother Earth's Plantasia mi è sembrato di poter, in qualche modo, utilizzarle per ricordare quell’insolito incontro e per ringraziare Mort Garson della sua gentilezza e per la sua intuizione sulle capacità delle piante. Ascoltate questo disco insieme alle vostre piante e ne uscirete tutti più felici.

The notion that plants can effectively detect sound is a recent acquisition. Together with two colleagues of mine, I was able to demonstrate in 2012 that the roots of plants can perceive frequencies sitting between 50 and 5000 Hz, and respond to them accordingly. For instance, 200 Hz is a pleasant frequency for roots, as it represents the sound peak for a water stream, thus stimulating them to direct themselves towards that sound source. On the other hand, other—usually higher—frequencies are much less pleasant for plants. The vibrations of a bug’s wings, or their calls, which are usually high pitched sounds, is in fact perceived as dangerous by plants.

Plants’ ability to respond to the different sound waves of their environment is much more widespread than we think, and some of them have developed a set of strategies to exploit sound sources. For instance, 20,000 different species release their pollen only when they hear the correct frequency corresponding to the vibrations emanating from the wings of their selected pollinator.

On these premises, it shouldn’t surprise that a few people have supposed a direct influence of music on the growth of plants. Mother Earth's Plantasia, is without a doubt the most fascinating example of this way of thinking. Its subtitle reads Warm earth music for plants... and the people who love them: Mort Garson was truly convinced about this theory.

At the end of the 90s, I was a young researcher attending a panel on the physiology of plants in Edinburgh. I had just delivered a speech on the sensory abilities of plants, which was met with my older colleague’s disapproval, when someone I didn’t know came up to my disheartened self to share his compliments and confirm plants are absolutely capable of appreciating music played to them. His name was Mort Garson. He told me he was a musician and that he had written music specifically for plants, as he collaborated with some botanists on a project called Mother Earth's Plantasia. He was in no doubt that the effects of music on plants are noticeable.

Some weeks later, I received at my lab a parcel with his album and a nice letter inviting me to play his music to our plants. I didn’t do it, as I deemed it a waste of time. I even ended up losing both the letter and the album when I moved house. At the time, I didn’t know what an amazing artist Mort Garson was and what a legendary career he had. When I discovered about him, it was too late to let him know how right he was: he passed away in 2008. So when Enrico Gabrielli—the co-founder of this album series—got in touch to ask me a few words on Mother Earth's Plantasia I thought this could be the occasion to somehow remember that odd encounter and thank Mort Garson for his kindness and his intuition on the acoustic abilities of plants. I invite you to listen to this album together with your plants: you will all come out of it much happier.

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Releases 19'40" Releases 19'40"

19m40s_03s: Google Bach

E, F, S, T

E, F, S, T

Parliamo di uscita speciale, quella realizzata dal nostro Francesco Fusaro per i nostri cari abbonati Moderato e Presto.


Il 21 marzo 2019, Google ha pubblicato un Doodle dedicato a Bach, incoraggiando i giocatori a comporre una melodia in due misure a loro scelta. Con la semplice pressione di un pulsante, Doodle utilizza quindi l'apprendimento automatico per armonizzare la melodia personalizzata nello stile musicale distintivo di Bach.
Quindi, seduto in un ufficio di Google a Londra, il nostro Francesco ha scelto una tonalità per ciascuna delle quattro persone che compongono 19'40" e ha scritto alcune melodie per ciascuna di esse.
Ha quindi trasferito i file MIDI in Ableton, li ha messi insieme e ha scelto quei suoni del popolare software di composizione che più gli ricordavano noi quattro. Il risultato sono 4 piccole miniature musicali che omaggiano lo stile di Bach, così come altre composizioni di 19’40". Per quanto riguarda il formato, ha scelto un CD in miniatura, perfetto per ospitare musica di così breve durata.
Le composizioni esistono in notazione tradizionale e potrebbero essere suonate anche da un quartetto d'archi... chissà se ad un certo punto non usciremo anche con quella versione…

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Enrico Gabrielli Enrico Gabrielli

LA TRACCIA VERDE, sceneggiato RAI del 1975...su come una pianta può essere testimone di un omicidio...

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Vi era un tempo remoto in cui lo script si chiamava sceneggiatura e la serie aveva il nome di sceneggiato.
In quell’epoca, ma siamo almeno a trenta o quarant’anni fa, il servizio radio-televisivo italiano aveva uno specifico compito di mantenere “alto” il registro delle informazioni. Come un genitore ansioso (“mamma Rai”, si diceva), arginava le masse dall’abbrutimento e prima ancora che il pil e lo share penetrassero nei tavoli di discussione dei direttivi, il suo compito era dare emozioni al popolo senza semplificare.
Negli anni settanta gli sceneggiati si tingevano di nero. Il paranormale di Uri Geller, di Natuzza Evolo, di Gerard Croiset, il thrilling di Lamberto Bava e Dario Argento, la strategia della tensione in atto dalle forze occulte dello stato, il boom della fantascienza tascabile e molti altri elementi imponderabili generavano una miscela di inquietudine e di morte che alimentava il sub cosciente collettivo. “Il Segno del Comando”, “Ho visto un’ombra”, “Ritratto di donna velata”, “Gamma”, “Esp”, “Extra” e molti altri titoli erano la Prima Serata che adesso a noi parrebbe inimmaginabile.
Uno sceneggiato del 1976 dal titolo “Dov’è Anna?” (che consigliamo caldamente di vedere) detiene ancora il record di ascolti della tv italiana con 14 milioni di telespettatori.
Ma spostiamoci di un anno indietro, nel 1975. Siamo a Los Angeles.

Thomas Norton utilizzando la macchina della verità smaschera un ladro per necessità, che per vendetta nei confronti dello scienziato si suicida, provocandogli un grave turbamento. Poco dopo la signora Flora Sills, vicina di casa del celebre dottor Thomas Norton, viene misteriosamente uccisa, proprio nel laboratorio dello scienziato. Infatti, nell'ambito dei suoi studi su un modello sperimentale di “macchina della verità” di sua invenzione, Norton si era accorto che una dracena regalatagli dalla donna, opportunamente collegata con gli elettrodi all'apparecchio, reagiva agli stimoli esterni fino a palesare un'attività emotiva e per questo aveva invitato la donna ad assistere ai suoi esperimenti. Grazie alle sensazioni di un'altra pianta, unica testimone in vita dell'omicidio, collegata alla macchina di Thomas Norton, si arriverà a smascherare l'assassino.

Lo sceneggiato in questione si chiama “La traccia verde”, per la regia di Silvio Maestranzi ed è ispirato ad un romanzo di fantascienza (abbastanza introvabile) di Gilda Musa dal titolo “Giungla domestica”.
Queste tre puntate, da circa un’ora e un quarto ciascuna, sono davvero ben congegnate e non danno mai la sensazione di “teatro” che, ad un occhio moderno, potrebbero dare le vecchie produzioni RAI. L’attore che interpreta lo studioso Thomas Norton (Sergio Fantoni) è vibrante e credibile, un uomo posato e pensieroso; perfetto. Il bianco e nero rende tutto impalpabilmente psicanalitico.
Ma la caratteristica evidente che lega “La traccia verde” a noi oggi, è questo avviso che chiude ogni puntata:

«Fatti e personaggi di questo racconto sono immaginari, ma gli esperimenti sulle piante e le ipotesi relative fanno ormai parte del patrimonio scientifico acquisito negli ultimi anni attraverso studi condotti negli Stati Uniti e nell' Unione Sovietica. In particolare sono considerate fondamentali le esperienze del ricercatore statunitense Cleve Backster»

Immagino che il professor Mancuso potrebbe sorridere a legger il nome di questo oscuro signor Backster che, ai tempi in cui teorizzò il concetto di “percezione primaria” delle piante (memoria e capacità di percepire dolore), non era passato attraverso il vaglio della comunità scientifica. Ma a noi gli esperimenti di Cleve Backster fanno lo stesso effetto del coetaneo (classe 1924) Mort Garson che nel registrare Plantasia chiese al Department of Botany, Annamalai University of India una conferma scientifica sulla capacità della flora di crescere a suon di musica umana. Qualcuno sostiene che Garson si fosse lasciato sedurre da un libro del 1973 di Dorothy Retallack dal titolo “The Sound of Music and Plants”, ma a detta dello stesso Mancuso nella piccola prefazione alla nostra ultima uscita (19m40s_10), Garson era probabilmente convinto di per sé che le piante potessero essere sensibili a stimoli musicali. Per cui questa convinzione doveva venire da lontano.
“La traccia verde” dunque parla della plausibilità che una pianta diventi testimone di un omicidio.
E se così fosse davvero avremmo la conferma scientifica che vivere in campagna sarebbe più salutare.


PUNTATA UNO

https://www.youtube.com/watch?v=Jq6eesVa0uM

PUNTATA DUE

https://www.youtube.com/watch?v=j0PXmdTX9FI&t=2542s

PUNTATA TRE

https://www.youtube.com/watch?v=bRh5Y5ZaxnY&t=1671s

Schermata 2019-12-16 alle 11.50.26.png
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Enrico Gabrielli Enrico Gabrielli

Il CarNEvalE degLi AnIMAli sul TeTTo

Le Boeuf ur le Toit par Dufy.jpg

Concerto di Natale

15 Dicembre 2019, h18

“Il Carnevale degli Animali sul Tetto”

“Le Carnaval Des Animaux” di Camille Saent-Saens

“Le Bœuf Sur Le Toit”, op. 58 di Darius Milhaud

Esecutori di Metallo su Carta:

Clara Cavalleretti, flauto e ottavino

Enrico Gabrielli, clarinetto, sintetizzatore e sax

Yoko Morimyo, violino

Eloisa Manera, violino

Lorenzo Boninsegna, viola

Marcella Schiavelli, violoncello

Roberto Benatti, contrabbasso

Sebastiano De Gennaro, percussioni

Damiano Afrifa, pianoforte, organo

Maria Silvana Pavan, pianoforte

I “Selton” Daniel Plentz, Ramiro Levy, voci recitanti

Pietro Puccio, visual

Marcello Corti, direttore

“A Parigi, ci sono due cavalli bigi, che vanno al trotto e al galoppo” dice la filastrocca. Ma un secolo fa a Parigi non c’erano mica solo cavalli:

c’era un’infinità di animali che facevano di tutto un po’. Intanto c’era un signor compositore, che era il più vecchio di tutti e che si

chiamava Camille Saint-Saëns: lui scrisse “Il carnevale degli animali” suite di brani caratteristici dove c’è il Leone in marziale colonna,

dove le Galline e i Galletti si azzuffano e il Cucù fa capolino nel folto del bosco. E ci sono certi Personaggi dalle orecchie lunghe (i critici musicali) che ragliano. Per via della verve polémique explicite contenuta in questa musica il burbero Camille ordinò che non venisse eseguita fino almeno oltre la sua morte. Che avvenne nel 1922, due anni dopo la prima esecuzione di un altro brano dove nel titolo c’è altro animale (il bue) rimasto sul tetto perchè non invitato al “carnevale”. Ma, in realtà, non è di animali a quattro zampe che si parla qui: piuttosto di personaggi caricaturali da bar, da club, da café chantant, da circo. E non sono animali anche loro in fondo? Non siamo anche noi adesso in un club circondati da strani bipedi dalle orecchie lunghe? Da pianisti ed emioni? Da bambini piccoli con le dita nel naso e bambini grandi con il cellulare in mano?

Il prolifico compositore Darius Milhaud (1892-1974) assieme al poeta Jean Cocteau (1889-1963) che scrisse l’azione scenica modellandola sui celebri circensi Fratellini, dettero vita ad una specie di “cinemà-symphonie” ambientato in un bar che appunto si chiamò “Le boeuf sur le Toit”, titolo ispirato ad una celebre canzone omonima di José Monteiro. Questo brano di musica è un “accrocchio” (in senso buono, ovviamente) di circa una trentina di celebri temi brasiliani e sudamericani che funzionano da pretesto per una vicenda strampalata dove un Barman, un Brooker, due Negri (di cui un pugile suonato - un classico), due Signore singolari, e un Poliziotto interagiscono fino alle più surreali delle conseguenze.

A leggere, o meglio a “reggere”, l’azione scenica in questo “nothing doing bar” a suon di caraibi e dadà, ci saranno i brasilianissimi Selton. Chi altri, sennò? A fare il Raoul Dufy della situazione invece ecco a voi l’eccentrico muggito sulla tela di Pietro Puccio.

Stasera al Santeria Social Club è permesso l’accesso ad ogni tipo di animale.

Benvemuuuuuuuuti

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